La Lettura, 26 luglio 2020
Storia dello zucchero
La storia dello zucchero è dolce e amara insieme. Fatta di successi e di eccessi, di arricchimenti e maltrattamenti, di leccornie e iperglicemie. Di certo ha stuzzicato la voracità dell’uomo e cambiato gli equilibri del mondo. Perché piace a tutti, ha un sapore universale, compatibile con tutte le culture alimentari e perciò è uno dei pochi cibi il cui consumo è sempre in crescita. Al punto che oggi viene scambiato come una commodity, cioè uno di quei prodotti primari – come il petrolio e il caffè – che circolano vorticosamente nel mercato globale.
Sono 64 milioni di tonnellate l’anno. Un’imponente montagna di cristalli bianchi che addolcisce la vita quotidiana. Con l’Europa al secondo posto tra i consumatori. Dopo l’India, che sorseggia ogni giorno fiumi di masala chai, il tè al latte dolce e speziato, che secondo la medicina ayurvedica è una panacea per tutti i mali. Non a caso gli indiani sono stati i primi, circa tremila anni fa, a far propria la vanna, pianta originaria della Nuova Guinea, trasformando il sakkara in un motore della fisiologia e dell’economia. E in più hanno anche coniato il nome: è dalla parola sanscrita sakkara derivano i nostri zucchero e saccarosio.
A farlo conoscere in Occidente sono invece gli ambasciatori di Dario il Grande di Persia che annunciano entusiasti al sovrano la scoperta della «pianta che fa il miele senza le api». Le stesse parole usate poco dopo, per darne notizia ad Alessandro Magno, da quel grande apripista di rotte e mercati che fu Nearco di Creta, ideatore della prima via delle spezie. Il resto lo fa lo storico e geografo greco Megastene che, reduce da un soggiorno durato dieci anni alla corte del re indiano Chandragupta Maurya, con un abilissimo storytelling convince Greci e Romani della bontà e utilità del dolcificante vegetale. In tandem con il padre della medicina Dioscoride, che prescrive acqua zuccherata a volontà per purificare il corpo. Ma fino al Medioevo la polvere dolce rimane merce rara, impiegata nella farmacopea più che in cucina.
Il primo salto di scala lo zucchero lo fa grazie agli Arabi, che affinano le tecniche di produzione dell’alsukar e inventano i primi dolci e sciroppi. Abilissimi mercanti, diffondono in tutto il Mediterraneo il vizio dello zucchero e le virtù del Corano. Ma nel Quattrocento Venezia lancia un’Opa ostile ai businessmen del Profeta e impianta la prima raffineria europea. L’affare fa gola a molte nazioni, ma servono terreni vergini, perché la canna impoverisce rapidamente il suolo. Così a un anno dalla scoperta delle Americhe, Cristoforo Colombo viene incaricato da una cordata di finanziatori genovesi, spagnoli, portoghesi e fiamminghi di creare piantagioni sull’isola di Hispaniola, oggi divisa fra Repubblica Dominicana e Haiti. Ed è subito boom. I colonizzatori lavorano senza sosta allo sviluppo del mercato e della produzione, mettendo a dimora nuove piantagioni in Brasile, Madera, Canarie, Antille, Caraibi, Martinica, Guadalupe, Cile, Venezuela, Ecuador, Colombia e Paraguay.
Gli affari vanno a gonfie vele. E, visto che la manodopera scarseggia, si ricorre agli schiavi africani. Purtroppo, deve esserci un automatismo storico tra zucchero e disuguaglianze, perché anche dopo l’abolizione della schiavitù i lavoratori del settore restano quasi ovunque dei paria. Come racconta l’antropologo Sidney W. Mintz nel bellissimo Storia dello zucchero, pubblicato nel 1985 e tradotto nel 1990 da Einaudi, che a settembre lo rimanda in libreria.
Dolcezza e potere, un ossimoro solo apparente, perché il professore della John Hopkins University, scomparso nel 2015, mostra come la canna da zucchero sia stata all’origine dell’imperialismo e forse addirittura la prima forma di industrializzazione. Di fatto nel Settecento lo zucchero è un affare colossale, come oggi l’informatica. Cristalli solidi allora, cristalli liquidi adesso. William Beckford, figlio del governatore della Giamaica e capo dell’impero zuccheriero britannico, proprietario di circa 3 mila schiavi, all’epoca era l’uomo più ricco del mondo. Oggi il movimento Black Lives Matter vorrebbe deporlo dal piedistallo. È il retrogusto amaro della storia. Ma la centralità della lobby della dolcezza si riflette anche in molte istituzioni simbolo della Gran Bretagna, come le università. La biblioteca del prestigioso All Souls College di Oxford, dove si è laureato tra gli altri Boris Johnson, è, per dire, intitolata a lord Christopher Codrington, proprietario di piantagioni alle Barbados, schiavista nonché bibliofilo accanito.
Ma a globalizzare i consumi e a far schizzare i profitti è stata la domanda popolare di dolcificante, indotta nell’Ottocento dall’abbassamento dei costi. Alla fine, secondo Mintz, lo zucchero ha dato una sferzata di energia alla classe operaia, l’ha fatta lavorare di più e meglio, nell’interesse del capitale. Insomma, un plus-sapore per produrre plus-valore. Ne è nata una sinergia edulcorata tra massa e potere. Come dire che la polvere bianca ha addolcito lo scontro di classe. Almeno fino ad ora. Perché un combinato disposto fra etica e dietetica, diabete dilagante e demonizzazione galoppante annuncia tempi duri per il sakkara.