La Lettura, 26 luglio 2020
Storie non comuni di latte e di birra
Nessuno brinda col latte. Perché sceglierlo se non è frizzante, alcolico, divertente? Il latte è adatto ai bambini, ai biscotti, alla colazione. Per un momento gioviale, trascorso in compagnia, serve qualcosa di diverso. La birra, ad esempio. Di solito ha un bel colore acceso, produce schiuma quando viene versata e scioglie la lingua a più di un amico.
A prescindere dai gusti personali, scegliamo una bevanda al posto di un’altra per via delle sue proprietà, delle convenzioni sociali e del ruolo che ricopre nel nostro immaginario. Tuttavia, la storia di ogni bevanda consumata dall’uomo è, come la storia di ogni prodotto gastronomico, una vicenda complessa. Gli elementi che ne hanno influenzato gli sviluppi non sono sempre stati gli stessi, al punto che gli usi, i costumi e le conoscenze di ieri sono ben diversi da quelli di oggi. Accorgersi che la natura di un prodotto muta col passare dei secoli è dunque il primo passo da compiere per capire che è possibile osservare il liquido che riempie il nostro bicchiere da diverse prospettive.
Latte e birra sono i protagonisti di due saggi appena usciti. A comporre un vero e proprio inno al latte è stato Piero Camporesi, intellettuale, antropologo e gastronomo romagnolo. Il suo saggio, Le vie del latte. Dalla Padania alla steppa, pubblicato in origine da Garzanti nel 1993, trova oggi nuova vita grazie a il Saggiatore, che lo ripropone come terzo capitolo di una trilogia dedicata all’esplorazione «antropologica e letteraria dei liquidi vitali» iniziata con Il sugo della vita e proseguita poi con Il brodo indiano. Minuziosi e scientificamente accurati nel raccontare la storia della birra sono stati invece due grandi divulgatori del mondo delle scienze americano: Rob DeSalle e Ian Tattersall. Dopo aver dedicato un intero libro al vino (Il tempo in una bottiglia, uscito nel 2014), i due autori hanno deciso di raccontare la bevanda dorata che riempie i boccali e allieta le serate di milioni di persone. La loro corposa indagine è arrivata in Italia grazie a Codice edizioni col titolo Storia naturale della birra (la traduzione è di Gianni Pannofino).
Le scoperte archeologiche, le indagini storiche e le ricerche paleo-scientifiche esposte nei due testi dimostrano che nelle società umane dei secoli passati queste due bevande hanno ricoperto ruoli ben diversi da quelli a cui noi moderni siamo abituati. Le più antiche tracce di birra d’orzo, rinvenute fra i resti di un insediamento sumero nell’odierno Iran settentrionale, risalgono a circa 5 mila anni fa (sebbene si pensi che il rapporto fra uomo e birra si sia sviluppato in tempi ancor più remoti). Grossomodo in quel periodo venne composta l’Epopea di Gilgamesh, poema epico in cui la degustazione della birra viene indicata come uno dei tratti distintivi della cultura mesopotamica. A dispetto della sua natura frizzante e dinamica, la birra fu dunque una creazione di popoli sedentari, coltivatori, capaci di addomesticare e crescere i cereali indispensabili alla sua elaborata preparazione. Birra e pane, infatti, sono i simboli gastronomici della rivoluzione neolitica, un periodo di transizione che portò gli esseri umani di alcune aree ad abbandonare uno stile di vita nomade, basato sulla caccia e sulla raccolta, in favore di una vita stanziale dedita all’agricoltura, all’allevamento e alla vita cittadina.
Il latte, insieme alla carne, è invece stato l’alimento principale della dieta dei popoli girovaghi delle steppe asiatiche e delle tribù di pastori dell’Africa sub-sahariana. Il latte di giumenta, ricchissimo di vitamina C, ha sostenuto per lungo tempo le orde di cavalieri sciti, tartari e mongoli, agendo, secondo Camporesi, come «supercarburante», un vero e proprio «propellente» alimentare. Data la necessità di mantenersi in costante movimento, questi popoli nomadi avevano bisogno di un cibo liquido, versatile e nutriente, che tenesse il passo delle loro cavalcature. Il latte, che si spostava insieme a loro ed era disponibile in qualsiasi momento, fu uno dei segreti della loro indomita attitudine alla velocità, alla vita trascorsa in sella, alla migrazione. Inoltre, il latte di cavalla costituiva la base per la produzione di bevande inebrianti come il kumis e la busha, trasformando il latte, per noi simbolo di alpeggi placidi e rilassanti, in una fonte di euforia ed ebbrezza. Ci accorgiamo dunque che la fonte di nutrimento dei neonati, in grado di favorire lo sviluppo nei primi mesi di vita e, come scrive Camporesi, di «alimentare, accrescere, moltiplicare», in passato sia stata un «cibo totale», capace di sostenere l’incedere di interi popoli.
La produzione di latte e birra si è radicalmente trasformata nel corso dei secoli, dando origine a un’evoluzione che racconta nei dettagli la storia delle società umane, le loro politiche economiche e sociali, le loro ideologie e il loro rapporto con l’ambiente. Potremmo ad esempio rileggere la storia economica dell’Europa del Cinquecento e del Seicento attraverso la scelta di produrre birra utilizzando il solo orzo, per riservare così alla panificazione il grano e gli altri cereali, la cui disponibilità era scarsa a causa di carestie e conflitti estenuanti. Oppure potremmo ristudiare Jean-Jacques Rousseau a partire dalla sua predilezione per latte e formaggi, bevanda e alimenti da essa derivati in cui il filosofo francese vedeva un’espressione della purezza e dell’innocenza, le virtù primordiali e selvatiche che l’uomo aveva perduto col fiorire della civiltà.
Se a integrare le analisi di tipo storico e antropologico si aggiunge anche la ricerca scientifica, ecco che ogni bicchiere diventa una miniera di informazioni sul rapporto che ci lega al mondo naturale. La storia della birra si intreccia infatti con quella di diverse varietà di orzo, luppolo, grano e lieviti, dimostrandosi non solo una mera faccenda produttiva, ma anche un percorso che lega la botanica alla chimica, la microbiologia all’ingegneria genetica. I lieviti, ad esempio, responsabili del processo di fermentazione, hanno plasmato l’albero genealogico della birra, dando origine al più «significativo scisma» della storia di questa bevanda: verificatosi in Sassonia all’inizio del Quattrocento, portò alla nascita delle Lager, ben diverse dalle birre ad alta fermentazione, dette Ale, prodotte fino a quel momento. L’impiego inconsapevole di una differente specie di lievito, il Saccharomyces pastorianus, da parte dei birrai della zona di Einbeck, fece sì che le birre divennero meno torbide, assunsero un colore brillante e acquisirono un sapore diverso, nuovo. L’aspetto curioso di questa innovazione è che nessuno a quel tempo conosceva i segreti del mondo dei lieviti, che venivano adoperati riutilizzando la schiuma delle miscele in fermentazione, come indicato dalla tradizione, senza sapere quali fossero gli elementi responsabili dell’intero processo. Dei funghi che noi chiamiamo lieviti la scienza si rese conto soltanto quattro secoli dopo, quando le scoperte di Louis Pasteur inaugurarono l’esplorazione vera e propria del mondo microbico.
Come Stefano Liberti dimostra nel suo saggio del 2016 I signori del cibo (minimum fax) – accurata inchiesta dedicata ad allevamento e agricoltura – oggi è impossibile raccontare la natura di un prodotto che finisce sulle nostre tavole senza chiamare in causa l’industria alimentare globale, che per massificare la produzione la accentra e ne riduce la variabilità, compie scelte eticamente discutibili e degrada gli ecosistemi. Latte e birra, come gli altri liquidi prìncipi della gastronomia mondiale – acqua, vino e olio – non fanno eccezione. Parafrasando Wendell Berry, bere è «un atto agricolo», tanto quanto mangiare. Pertanto, i saggi di Camporesi, DeSalle e Tattersall sono un invito a vedere il boccale ricolmo di schiuma e il latte nella scodella con occhi nuovi, di modo che al loro interno si possano scorgere la geologia di un territorio, le caratteristiche fisico-chimiche dell’acqua utilizzata, le varietà di orzo, luppolo e mangimi impiegate, ma anche lo sfruttamento animale e la perdita di tradizioni e sapori causata dalla produzione su larga scala, che ogni anno affossa un gran numero di piccoli allevatori e birrai.
Potremmo chiederci in che modo oggi Camporesi, scomparso nel 1997, utilizzerebbe la sua prosa, limpida e affascinante, per descrivere il latte del nuovo millennio. Che cosa penserebbe di chi protesta contro un mercato iniquo ed esterofilo versando il latte contenuto nelle cisterne sull’asfalto e nei campi o di chi consuma i cosiddetti «latti vegetali», come quello, ormai diffusissimo, di soia, perché segue una dieta vegana? È probabile che il gastronomo di Forlì tornerebbe a utilizzare la lingua italiana, le citazioni letterarie e le sue conoscenze antropologiche per rimarcare il fatto che il latte, come del resto la birra, è una bevanda composita, che parla di noi e del mondo, tutto fuorché un liquido uniforme e silenzioso, adatto soltanto a essere trangugiato durante un accesso di sete.