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 2020  luglio 26 Domenica calendario

Arkan e gli «affari» delle tigri

Erano le tigri. Le tigri di Arkan. Ma ancora non bastava. Un nome di battaglia per sottrazione. Nei primi due anni della guerra nell’ex Jugoslavia, il 1991 e il 1992 – gli anni di nascita, formazione ed esordi di morte – i paramilitari serbi preferivano farsi chiamare super tigri.
Identificavano il ceppo primordiale. Il gruppo storico agli ordini di Željko Ražnatovic detto Arkan: ex rapinatore, ex spia ed ex killer a pagamento dei servizi segreti serbi che lo salvarono da arresti e carcerazioni, e quando non ci riuscirono ne favorirono le evasioni. Non un criminale vero. Piuttosto un malvivente mediocre con pesanti protezioni. Insomma, un raccomandato.
Arkan. Come la tigre del suo fumetto preferito quand’era un ragazzo. «La Lettura» ha incrociato fonti investigative di quattro nazioni, resoconti di giornalisti balcanici, studi di ricercatori universitari serbi emigrati nel Nord Europa, documenti secretati. Ha riportato alla memoria i protagonisti di un riciclo esistenziale – dapprima soldati durante il conflitto, quindi criminali nel dopoguerra – e, grazie a un elenco riservato, ha indagato sulle ex tigri (e super tigri) ripartite dalla Serbia con destinazione il mondo, come se niente fosse mai avvenuto.
I boia del boia Arkan sono nati tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Qualcuno è morto (in battaglia, per overdose, caduto in circostanze misteriose, stroncato da infarti nel cuore di notti balorde). La maggioranza ancora vive. In agio e ricchezza. Nella totale impunità. All’epoca dell’arruolamento, le tigri si dividevano tra tifosi ultrà della Stella rossa di Belgrado e criminali fatti uscire di galera. I futuri paramilitari furono istruiti da ex ufficiali della Legione straniera specie quella francese (come Mirolad Ulemek, segni distintivi una rosa tatuata sul collo e una ragnatela sull’avambraccio) e spediti all’attacco. Un migliaio i soldati nella fase embrionale delle tigri, che presto triplicarono di numero. Le marchiarono loro, le prime offensive contro i croati: nel luglio 1991, gli assalti al villaggio di Celije, la cacciata dei residenti della cittadina di Ilok e, in generale, l’invasione della Slavonia. Così come era stato promesso. Nell’accogliere in aeroporto i calciatori della Stella rossa campioni d’Europa nel maggio di quell’anno, Arkan s’era presentato con zolle di terra. Zolle proprio della Slavonia poi regalate ai calciatori, a garanzia che quella regione croata sarebbe presto stata serba.
Agli analisti militari, gli attacchi delle tigri ricordavano la progressione frontale dei sovietici nella Seconda guerra mondiale e insieme le razzie turche di 5 secoli prima. Da una parte blocchi stradali, ponti fatti esplodere, case incendiate; dall’altra massacri, torture, stupri di massa. Il terrore. Sono stati i soldati di Arkan a inaugurare la pulizia etnica basata sulle violenze sessuali. Ragazzine anche di dodici anni – bambine – selezionate, sottoposte a sistematiche aggressioni, fino a 30 uomini al giorno, quindi assassinate oppure, se in attesa di un bambino, tenute prigioniere fin quando un aborto non era più possibile perché a ridosso del parto; se praticata, l’interruzione di gravidanza avrebbe messo a rischio la vita delle stesse giovani. Sul loro ventre, le tigri incidevano croci con la lama del coltello. L’odio contro le musulmane. Contro le «infedeli».
Il tempo non aiuta, non sana, non placa. A distanza di 26 anni mancano i mandanti e i killer di Dada Vujasinovic, giornalista fra i primi a denunciare i massacri e trovata morta in casa: nei ritratti di Dada, Arkan appariva per quello che era. Una persona disturbata che in una quotidianità normale avrebbe faticato a mettere insieme il cibo per la cena; quanto alle sue truppe, erano barbari perennemente drogati e ubriachi.
Le tigri: un’infinita trama di atrocità. Inclusi i campi di concentramento. Quasi nessuno ha pagato. Come tanti nazisti, nonostante Norimberga. Allora i tedeschi scapparono sfruttando protezioni e accordi, a volte cambiarono identità, spesso divennero criminali; dopo il conflitto i serbi sono fuggiti sfruttando protezioni e accordi, a volte hanno cambiato identità, spesso sono diventati criminali.
Binari paralleli. Corsi, ricorsi. E il rispetto postumo riservato agli «eroi». Brindisi, preghiere, pianti. Ringraziamenti. La tomba di Arkan è meta di pellegrinaggi. Non soltanto dei serbi: nel cimitero arrivano estremisti di destra. Da ovunque in Europa. Su internet i cimeli delle tigri conservano un significativo mercato: ritratti, toppe, berretti, addirittura mille euro per un’uniforme (usata). Guai a parlar male del capo e delle sue squadriglie. I suoi spietati. Che dopo la guerra, nella perpetua assenza di codici, remore e rimorsi, hanno imparato l’arte del compromesso e delle trame. Per sopravvivere. Alleanze e affari criminali.
Il legame tra serbi e ’ndrangheta è nato con la guerra. Le tigri avevano una disponibilità enorme di armi e le cosche ne avevano bisogno per le faide interne, le estorsioni e gli attentati. Oggi i serbi collaborano con le ’ndrine. Nel narcotraffico. Grazie anche al solco tracciato da Darko Saric, già padrone intercontinentale della cocaina, stabilitosi fra Argentina e Uruguay per trattare con i vertici dei cartelli sudamericani. Dice un investigatore spagnolo che soltanto due gruppi hanno compiuto la prepotente scalata e trattano alla pari con le classiche potenze egemoni (gli stessi narcos e la ’ndrangheta): gli albanesi e, appunto, i serbi. Dice un investigatore italiano che, nella giungla della strada, non c’è nessuno che come i serbi sia temuto da tutti gli altri. Per l’irruenza, la potenza di fuoco, la spietatezza senza pari.
Delle geografie, quella italiana resta centrale. E non perché a Milano, nell’aprile 1974, esordì un giovane Arkan (rapinò un ristorante). Da Milano possiamo raccontare l’epopea delle tigri. Partendo da Igor Kolar. Assaltatore di banche armato di kalashnikov e granate. In testa, progetti di spedizioni contro portavalori sventati alla vigilia dai carabinieri e progetti di sequestri di persona con identico epilogo. Da 10 anni in galera, Kolar e i suoi hanno lasciato tracce vive. Relazioni con donne del quartiere Corvetto, in periferia; armi imboscate e mai ritrovate; soldi ugualmente nascosti; discepoli che vorranno replicarne le gesta. E superarli.
Marko Lopusina è un giornalista e scrittore serbo. Ha scritto sia sulle tigri sia sui servizi segreti serbi. Citando fonti di polizia, inquadra l’area balcanica secondo le seguenti mafie: per i serbi, i clan sono tre. Uno concentrato a Belgrado (Luka Bojovic mafija), un secondo ramificato in tutta la nazione (Legija mafija) e un terzo senza confine, la Arkan mafija, non per forza svincolata dalle altre. Bojovic, come Ulemek (sono stati accomunati dalla passione per il fucile mitragliatore Zagi M-91 e divisi da un’accesa rivalità) è stato un ufficiale di Arkan. Ha scelto la Spagna e ha costruito un impero i cui proventi hanno permesso di aprire aziende, alberghi, centri commerciali. Al solito, uno schermo per traffici di droga, armi, documenti falsi. Per produrre e riciclare soldi.

Nell’elenco riservato analizzato da «la Lettura» compaiono identità e località. Identità come «Pajo» (nome di battaglia), direttore finanziario di società di Belgrado; «Raja» (nome di battaglia), entrato nei servizi segreti serbi; «Osijec» (nome di battaglia), interprete per le delegazioni straniere e le organizzazioni di difesa dei diritti umani; i Vukovij, padre e figlio, che hanno avuto impieghi nei casinò e nello zoo di Belgrado... Le località sono i luoghi dove si sono sistemate le tigri. Con moglie, figli, nipoti. Nijemci, Banja Luka, Nia, Ruma, Derventa. È soprattutto qui che vanno cercate. Ma le tigri sono diventate fantasmi. E non sempre i documenti del monumentale materiale del Tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia svelano segreti.
Ci restano gli appunti sparsi che vecchi cacciatori delle tigri hanno condiviso. Dettagli forse ormai inutili, frammenti di descrizioni. Per esempio: «Alto 2,05 centimetri», «Ama le macchine Honda», «Non ha un occhio», «Guida esclusivamente macchine prive di capote», «Ha il tatuaggio di una donna africana», «Ha perso una gamba», «Giocatore di poker», «Pilota aerei», «Campione di karate», «Ha aperto una catena di panetterie», «Addestra cani», «Vive in Sudafrica».
I latitanti, si dice, li trovi quando decidi di inseguirli. Chiunque, prima o poi, commette un errore o lo commettono i suoi fiancheggiatori. In Sudafrica, che garantisce ospitalità, protezioni e nuove identità alle tigri, s’era nascosto il killer di Arkan, Dobrosav Gabric, uno sbirro ingaggiato per eliminare uno che sapeva troppo, uno che insisteva nel comportarsi secondo la sua natura: i funzionari dell’Interpol che hanno lavorato su Arkan l’hanno definito un «cane pazzo».
Dice un investigatore bosniaco che potrebbero esserci in giro nuovi Simon Wiesenthal, il sopravvissuto alla Shoah cacciatore di nazisti. Dei Wiesenthal antiserbi. Alla ricerca di informazioni e indizi. Di liste da fornire alle forze dell’ordine e agli esecutori delle vendette.
Vero che il dopoguerra balcanico ha già alimentato reciproche rappresaglie etniche, in una spirale di odio mai sopita, forse messa in pausa anche per ragioni di Stato (l’aspirazione a entrare nell’Unione europea). E vero che i serbi, quantomeno le vecchie generazioni, tutto hanno in mente tranne che riaprire dibattiti e promuovere azioni su quella stagione. Ma è anche vero che troppi conti sono sospesi. Chi s’è fatto la prigione per reati vari è uscito o uscirà a breve. I pochi processi sono gravati da intoppi e ribaltamenti di sentenze. Jovica Stanisic e Franko Simatovic sono stati due elementi chiave delle forze militari del regime di Slobodan Milosevic. Hanno avuto legami con le tigri. Forse, mentre i serbi uccidevano i figli davanti alle madri, decapitavano anziane, soffocavano neonati, seppellivano i vivi insieme ai morti, quei due erano presenti. Sono liberi. In attesa (forse) di una condanna definitiva. Il processo è iniziato nel 2003.
Ci sono state tigri che hanno combattuto nella guerra in Ucraina. Altre assoldate dai servizi segreti (anche americani). Altre che possiedono le mappe degli scontri nell’ex Jugoslavia e organizzano periodiche battute per riportare alla luce vecchie armi da vendere ai camorristi. I kalashnikov possono rimanere a lungo sotto terra, basta oliarli e funzionano come se nuovi. Le tigri sono come queste armi. Attendiste. E camaleontiche.
Rapporto della polizia tedesca sul criminale quarantaseienne Srdan Pajovic, ex tigre, fascicolo 123278. Alla voce «alias» figura come: «Pajovic Srdjan»; «Jandel Tomislav Matija»; «Milojevic Predrag»; «Polumira Dejan»; «Valencic Darko»... Informazioni sul soggetto sono state richieste dalle polizie di Roma, Vienna, Belgrado, Podgorica, Parigi, Madrid. Un passato che non muore e s’alimenta come una metastasi. Metastaza, in lingua serba.