La Lettura, 26 luglio 2020
Schürmann, l’ansia di fuggire dalle origini
Occhi chiari, folta capigliatura bionda – un aspetto inconfondibile che non gli lascia scampo. Nell’angolo più remoto della Turchia una ragazzina, appena lo vede, lancia l’allarme: «Turist almàn, turist almàn!». Turista tedesco! La trasparenza delle sue origini lo turba profondamente e lo rende vulnerabile. Fuggire? Dimenticare? La Germania ha una storia di orrori, un lascito a cui non è possibile sottrarsi. Questo è il motivo che guida l’autobiografia intellettuale di Reiner Schürmann, Le origini, appena pubblicata dalle Edizioni Efesto. Si tratta di un testo straordinario, uscito in francese per Fayard nel 1976, che è stato a lungo ignorato dal mercato editoriale italiano. Il che è tanto più incomprensibile, se si pensa che esisteva già la traduzione di Ferruccio Scabbia, ritrovata nell’archivio Schürmann alla New School for Social Research di New York.
Il pensiero di Schürmann costituisce oggi un imprescindibile punto di riferimento grazie soprattutto alla sua interpretazione di Heidegger, di cui fu allievo. Pubblicato nel 1982, Il principio d’anarchia (in italiano con il titolo Dai princìpi all’anarchia) radicalizza l’esigenza di prescindere da ogni fondamento, da ogni fondazione. Non si sbaglia dicendo che la sua riflessione anarchica, che mette in discussione ogni arché, ogni principio, ogni comando, decostruisce l’origine. Il nesso tra esistenza e filosofia è, dunque, strettissimo. Ecco perché l’autobiografia di Schürmann è quasi un atto di nascita del suo pensiero e insieme un racconto suggestivo della sua rocambolesca vita.
Le origini sono anzitutto le circostanze anagrafiche. Reiner Schürmann nasce ad Amsterdam da genitori tedeschi che avevano seguito il Reich nell’invasione europea, la madre indifferente a neve, bombe e idee politiche, il padre ben più coinvolto. «Nato troppo tardi per conoscere la guerra, troppo presto per dimenticarla». Così commenta Schürmann. E d’un tratto è chiaro che le origini sono più profonde e complesse, perché sono inestricabilmente legate a quell’epoca di massacri e di stermini. «Ebreo o nazi? Alleato o Asse? Vincente o perdente della Storia? Perdente io». Emerge così l’interrogativo che lo assillerà sempre: «Perché un passato così? Perché a me? E perché a me proprio quel passato?». L’origine tedesca è vissuta come una colpa originaria: «Essere nato con milioni di morti sulle spalle».
Forse nessun altro intellettuale tedesco, né prima né dopo, ha affrontato in questi termini una questione che, con il tempo, è stata invece sempre più elusa. Non fa eccezione neppure Karl Jaspers, che con il suo pamphlet del 1945 La colpa della Germania ha inteso lanciare un definitivo monito morale ai suoi concittadini. Per Schürmann il nazismo non è concluso, «il fascismo non è estinto». La Endlösung, la «soluzione finale», quella parola che lo perseguita dalla nascita, è la sua origine. E lui la riconosce. È la storia a imporlo, sebbene quel passato gli sembri così estraneo. «Dentro di me parla qualcosa di più antico (...). Dice che in me circola lo stesso sangue che scorre nelle vene di Adolf Eichmann». Le origini che si pretende di liquidare, tornano indietro a tutta velocità. «Non venitemi a parlare di riconciliazione, riparazione, retrocessione, riunificazione, per mettere fine allo choc di ieri».
Il passato non passa e i fantasmi sono più vivi dei vivi. L’episodio d’infanzia che Schürmann narra è raccapricciante. Ai bambini della famiglia, rientrata in Germania, è proibito giocare nel cortile antistante la fabbrica che il padre ha rilevato. Eppure Reiner s’insinua nei sotterranei. Sono ancora lì gli scheletri dei prigionieri – muffa ispessita e brandelli di tessuto a righe. Li chiamavano «pigiami», condannati ai lavori forzati. «Mi chinai per vedere meglio. Improvvisamente un liquido scuro mi colò dalle labbra. Un fiotto regolare sopra uno dei due teschi. È lì che qualcosa mi si è rotto dentro». La fabbrica, che per il padre è l’impresa della sua vita, per Reiner rappresenta un’immagine indelebile di morte.
Le origini diventano quasi un diario di fuga – dal padre, dalla patria, dalla Germania. E da tutti i padri incontrati dopo, compreso Heidegger. Ma le colpe ricadono sui figli in molti sensi, anzitutto perché il passato sembra pesare come una condanna anche per chi non c’era, per chi si chiama fuori. La fuga si rivelerà un naufragio.
Tuttavia le tappe del suo itinerario, ricostruite in otto capitoli, mettono in luce la radicalità delle scelte. Schürmann si schiera dalla parte dei perseguitati. Svolge un ruolo significativo Yoschko, un ebreo polacco, reduce dal lager di Bełzec, incontrato a Parigi. La differenza d’età non impedisce che si sviluppi un’amicizia profonda. Forse è possibile riparare insieme le crepe della Storia – quella della Germania e quella di Israele. Tedeschi e ebrei sono superstiti di uno stesso passato. Schürmann segue Yoschko e va a vivere nel kibbutz Kfar Ezra, vicino Haifa. Lo attira un’esistenza sobria, votata al duro lavoro manuale, lo affascina quel «socialismo in miniatura» che fa del kibbutz un piccolo laboratorio politico. Ma l’entusiasmo si spegne presto, quando il Comitato, composto da giovani sabra, nati in Israele, così diversi da Yoschko, così lontani dalla cultura europea, decide la sua espulsione. Le sue origini tedesche sarebbero incompatibili con il progetto della nazione ebraica. Sono intense e attualissime le pagine dedicate a quest’esperienza straziante vissuta negli anni Sessanta.
L’ombra del passato lo accompagna proiettandosi ineluttabilmente sul suo destino. È anche la lingua a testimoniarlo. «Hanno insozzato la mia lingua. Ormai, attraverso lei, quell’origine si fa sempre più prossima. È lei che mi vive, mi esprime, mi pronuncia. È lei che mi determina e mi distrugge». Dopo una permanenza in Germania Schürmann studia teologia in Francia, dove nel 1970 è ordinato domenicano. A quel periodo risale il suo saggio Meister Eckhart o la gioia errante. Ma abbandona presto il saio. L’amore per Louis, artista originario del Québec e morto prematuramente di Aids, prepara la sua fuga dall’Europa. D’altronde una zingara gli aveva predetto che la sua meta era dall’altra parte dell’oceano.
Negli ultimi capitoli è ricostruito il rapporto complesso con il nuovo mondo. «Insegnerò filosofia agli americani». Anzi, filosofia tedesca. L’America è la grande oasi d’ingenuità in cui si può cercare un sollievo dal peso mortifero della memoria. Il passato, però, lo insegue anche lì. A Washington, tra un concorso universitario e l’altro, s’imbatte in un corteo neonazista. Si scaglia allora contro quel blocco e finisce per avere la peggio. Non riesce a distruggere fisicamente il passato che pretenderebbe di farsi presente. E quell’atto ha il sapore di un ennesimo fallimento. Ma l’antidoto è proprio la filosofia. L’origine pensata, il pensiero dell’origine, sarà il grande contributo di Schürmann all’indirizzo anarchico della riflessione contemporanea.