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 2020  luglio 26 Domenica calendario

Biografia di Daniele Luchetti raccontata da lui stesso

Primo contatto: “Ci piacerebbe intervistarla per le pagine di domenica”.
“Non so se posso già parlare del mio prossimo film”.
“In realtà è perché compie sessant’anni”.
Resta in silenzio. Uno di quei silenzi indecifrabili.
“Me ne ero dimenticato”.
Daniele Luchetti si presenta e solo l’aspetto fisico denuncia l’assenza di qualunque divismo: i vestiti sono generici, pratici, non chiassosi, di uno che ama passare inosservato e che lascia alla sola montatura degli occhiali, leggermente colorata, il ruolo di vezzo da scovare; poi subito sorride, e anche il sorriso non è invasivo, così come il volume della voce, o i termini utilizzati: tutto rientra in un understatement forse naturale, forse ricercato, forse entrambi, decisamente congeniale per chi a sessant’anni ama il suo equilibrio, e che nel mondo esterno desidera lasciare traccia di sé solo attraverso i film. E così il regalo migliore per il compleanno è arrivato da Venezia: il suo Lacci aprirà la Mostra al Lido, “e ne sono felicissimo. Anche se al Lido non è andata sempre bene…”.
Come mai?
Presi una scoppola con I cattivi maestri, avevo solo 38 anni. Da lì ho smesso per molto tempo.
Però ha iniziato presto.
Prima con la pubblicità, poi da aiuto regista di Nanni Moretti in Bianca e La messa è finita; negli spot cercavo di inserire quegli attori che normalmente si dedicavano solo al cinema, e viceversa.
Tipo?
Stefano Accorsi nella pubblicità del Maxibon: “Du gust is megl che uan” è un’invenzione mia e del direttore creativo.
Nel suo primo film, “Domani accadrà”, si è trovato a 28 anni a dirigere Ciccio Ingrassia…
(Ride) Decise tutto da solo, e poi le sue scelte avevano un senso, quindi potevo dirgli poco; in sostanza era portatore di un’esperienza che allora non sapevo come giudicare; (ci pensa) in realtà un po’ tutti gli attori di quel film erano portatori sani di qualcosa, e io nel ruolo del vigile che smistava.
Per Marco Giusti è uno degli eredi di Risi e Scola.
(Quasi balbetta) Ma… sì… boh… magari… (poi prende coraggio) Forse è per una certa disinvoltura nel prendere dei rischi: non ho mai paura di affrontare un percorso differente, non rifiuto la “prima volta”.
Esempio?
Quando ho girato Il portaborse avevo trent’anni, e rientrava nel cinema politico: dopo il successo mi hanno chiesto il sequel o qualcosa di simile; potevo andare avanti cinque anni e ben pagato…
Invece?
Non sopporto l’idea di ripetermi, potrei impazzire e affronto il cinema con l’occhio di chi desidera avventure; (ride) quando non ho seguito questa regola, ho sbagliato.
Tipo?
Con Arriva la bufera.
Ha girato molti successi.
E mi chiedo se dietro questi film si vede l’identità di un regista o solo la volontà di una persona vorace che vuole tentare di tutto.
Teme di non lasciare un imprinting?
M’interrogo su come sarebbe andata se mi fossi concentrato su commedie come Il portaborse o La scuola; però ho creduto in ogni film, anche quando sono andato in Argentina per la serie tv sul Papa; e non ero interessato, è stato Valsecchi a insistere e lo ringrazio.
Perché?
Lo ritenevo un argomento lontano da me, poi in Sudamerica ho ritrovavo elementi comuni con la mia storia, soprattutto della politica degli anni giovanili.
Protestava contro Videla?
Fui arrestato con la mia fidanzata dell’epoca; (sorride) ero iscritto alla Fgci…
Non stava con i “compagni che sbagliano”.
No, eppure ne avevo tanti sotto il naso, gente che preparava le pistole o le molotov prima di una manifestazione, e quasi sempre erano dei ragazzi borghesi; (cambia tono) molti di loro hanno pagato in prima persona.
Ne era affascinato?
Ne invidiavo l’energia, la vitalità, la consapevolezza di prendere dei rischi; ma quando ci affrontavo dei ragionamenti più approfonditi, alla fine mi perdevo, non capivo il loro vocabolario, e trovavo maggiore concretezza nella sezione del Pci, magari più terra terra, ma con la possibilità di influenzare la società.
Cosa leggeva in quegli anni?
La mamma di un amico mi disse: “Vai sui classici, dopo non avrai tempo”. Quindi Flaubert, Stendhal, gli americani, e i fumetti come Linus e Frigidaire.
Torniamo alla crisi vissuta a Venezia…
Sono andato come una scheggia fino a I piccoli maestri: mi sentivo un po’ esaltato, sembrava tutto facile, i film incassavano e venivano proiettati a Cannes o a Venezia; quella certezza è fondamentale se fai cinema.
Eppure…
Su I piccoli maestri contavo tanto, e mi sentivo catapultato in una comunità di persone che mi piaceva, capitanate da Luigi Meneghello, scrittore ed ex partigiano, e l’idea di realizzare un film su quel mondo, mi esaltava; a Venezia il film venne stroncato a tal punto che pensai: Ma chi me lo fa fare!
Si ricorda il tenore delle critiche?
No, però ci restai male; Enrico Lucherini (storico ufficio stampa) entrò nella mia stanza e mi offrì il quadro della situazione: “Disastro. Hanno fischiato”.
Erano gli altri a non capire o lei ad aver sbagliato?
Io. Solo io. Ho pensato che gli elogi di prima fossero esagerati; con il nostro lavoro passi dall’auto-esaltazione, alla depressione, e senza vie di mezzo, anche se molti miei colleghi credono solo alla prima fase…
E lei?
Mi fido poco degli elogi, e poi amo più scrivere, progettare, studiare il cast, girare, montare, piuttosto che contemplare il risultato finale.
Sono più celebri i suoi film di lei.
È una scelta: preferisco sparire dietro alla pellicola, altrimenti il regista vende se stesso e non la sua storia.
Non teme la deminutio.
Forse così mi sono messo in sicurezza sulla vita quotidiana e sulle aspettative degli altri.
Pennacchi l’ha accusata di aver stravolto il suo libro.
Le sue critiche non mi hanno ferito, è una persona intelligente, e sapevo che era incazzato perché lo avevo bypassato nella sceneggiatura, ma non potevo sostenere una lotta con lui.
La critica era legata pure a come ha trattato i fascisti nel film, “tutti cattivi”.
Invece ho dato a Elio (Germano) il compito di interpretare il fascista più simpatico della storia del cinema italiano.
Alza mai la voce?
(Stupito) Sono un passivo-aggressivo: medito vendetta quando subisco un torto, poi me ne dimentico, o perdono, ma nell’immediato la sola idea mi dà soddisfazione.
Dopo “I maestri”, il ritorno al cinema…
Grazie alla mia ex moglie: in quel periodo di stop abbiamo visto tante commedie sentimentali e ne volevamo girare una, ma quando lasci il set per molto tempo, in qualche modo perdi il ritmo, la visione d’insieme, attribuisci alle cose un’importanza sbagliata.
Un attore con il quale ha avuto problemi all’inizio.
Con Elio il rapporto non è stato immediato; per quel film ho passato un anno alla ricerca del fascista perfetto, tra palestre di boxe e centri sociali di destra, e ho scovato tanti buoni picchiatori, anzi troppi, quindi c’era un problema.
Poi?
Un giorno incontro Elio in un bar e penso: è l’opposto. È lui. Solo che nelle prime letture del film non era efficace, io disperato, ma all’improvviso capisco il problema: recitava contro il personaggio, ogni volta doveva dimostrare che il fascista era uno stronzo. “Devi metterti dalla sua parte”. “Non difenderò mai uno così”. “Solo un quarto d’ora”. E l’ho convinto.
Nel 2015 Scola l’ha citata per una frecciata al cinema italiano: “Oggi Luchetti non sa cosa fa Tornatore”.
È un tema serio; uno dei momenti migliori dell’ultimo decennio è quando è stato fondato il gruppo “I cento autori” e per miracolo ci siamo ritrovati tutti insieme, da Bellocchio e Bertolucci, a Sorrentino, Virzì e Archibugi; parlavamo e litigavamo, ci scambiavamo le sceneggiature e seguivamo i film degli altri. Durante quell’esperienza sono nate pellicole interessanti.
Non è durata.
Scatta sempre qualcosa che ci separa, magari la competitività, i figli, le affinità elettive, il sentirsi migliori o peggiori dell’altro, ed è un danno.
Si inserisce nel Pantheon dei grandi registi italiani?
(A momenti salta sulla sedia e d’istinto risponde) No! (silenzio, e poi…) Non lo so, non è una decisione che tocca a me.
Luchetti nel 1970.
Sono davanti a Canzonissima e penso che siamo nell’era moderna.
Nel 1980.
Con un amico ero proiezionista in una scuola di cinema e convincemmo l’Istituto di Italia-Urss a prestarci l’Aleksandr Nevskij di Eisenstein. Andiamo tre ore prima dell’appuntamento per studiarlo: apriamo le scatole sovietiche, preleviamo la pellicola, ma si srotola tutta. Abbiamo passato il resto del tempo a ricomporla.
1990.
Giro Il portaborse e inizio ad avvertire la sensazione che il cinema è la mia vita; ricordo l’albergo ad Amalfi, ero lì con la troupe, circondato dagli amici, alcuni poi utilizzati da comparse, e spinto da una piccola produzione con Barbagallo e Moretti; poi i miei genitori che arrivano a salutarmi, le fidanzate presenti…
Una famiglia allargata.
Ho l’immagine di noi alle prese con l’autostop per andare in pizzeria.
Autostop?
Era un film povero, non avevamo una macchina, però era la vita più deliziosa che si potesse immaginare, un misto tra il campeggio con gli amici, la vacanza a scrocco di qualcun altro, e l’idea di realizzare un qualcosa che avrebbe ottenuto una risonanza.
Perfetto.
In realtà Nanni si è ammalato in quei giorni ed eravamo un po’ preoccupati per le sue manifestazioni cutanee e il dimagramento, ma nella nostra incoscienza nessuno aveva pensato a qualcosa di grave, mentalmente eravamo altrove, ci inventavamo sopralluoghi, come a Pompei, solo per non pagare il biglietto.
2000.
Sono caduto sotto la liturgia borghese: affittai a Fregene una casa con piscina, avvolto dalla sensazione di aver ottenuto una piccola quantità di benessere anche economico, e la prospettiva di poter far qualcosa, senza sapere cosa.
A vent’anni avrebbe creduto alla vita borghese?
Ero stupito e divertito, e anche allarmato perché mi trovavo in un contesto che un tempo avrei criticato.
2010.
Sono separato, in vacanza a Levanto con mio figlio e degli amici, mangio un grosso pesce, quando pensavo che sarei stato circondato dai vecchi affetti. Di loro non c’era nessuno, ed era l’inizio di una nuova vita.
2020.
Una bambina di cinque anni, una figlioccia di 13, un figlio di 20, un matrimonio finito, e un’altra coppia che sta cambiando casa. Tanti progetti nati nella pandemia.
Nel lockdown non si è spento il cervello…
Sono stato talmente colto dal panico, da iniziare a tirare giù idee, per farmi trovare pronto.
Gioca con l’enigmistica?
No.
Oroscopo?
Ogni tanto.
Superenalotto?
Mai.
Scaramanzia?
Neanche una.
Cattolico?
No.
Un attore del passato con il quale avrebbe voluto lavorare.
Mastroianni e Tognazzi; anzi Mastroianni l’ho diretto in un piccolo cortometraggio per la scuola di cinema: venne per due ore, e fu disponibilissimo, simpatico, l’attore più semplice al mondo.
Un attore difficile.
Quelli insicuri, che non hanno un problema con il personaggio ma con se stessi.
Lei chi è?
Uno che rientra nelle statistiche dei padri separati, che poi hanno fatto figli in tarda età, che ha incertezze sul lavoro, ma anche dei progetti. E Venezia mi aspetta.
(Cantava Rino Gaetano in “Mio fratello è figlio unico”: “…E non ha mai criticato un film, senza prima, prima vederlo”).