Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2020
Ma quel vegetale capisce?
I lettori non più giovanissimi probabilmente ricordano uno sceneggiato Rai del 1975 – in tre puntate, l’equivalente di un’odierna miniserie Netflix – dal titolo «La traccia verde». Il protagonista, lo scienziato Thomas Norton, interpretato dal compianto Sergio Fantoni, grazie a una macchina della verità di sua invenzione è in grado di rilevare un segnale che viene emesso dalle piante quando assistono a episodi di violenza su altri esseri viventi. Una dracena, o tronchetto della felicità, presente sulla scena del delitto consentirà a Norton/Fantoni di individuare il colpevole di un omicidio e assicurarlo alla giustizia.
Lo sceneggiato conobbe una grande popolarità e contribuì a rafforzare nelle persone l’idea che le piante percepiscano, comunichino e apprendano. Naturalmente l’invenzione degli autori della fiction non aveva alcun fondamento scientifico. In anni recenti, tuttavia, lo sviluppo della cosiddetta «neurobiologia vegetale» sembra aver fornito argomenti all’ipotesi che le piante posseggano una mente.
Tra gli specialisti suscita una certa perplessità l’uso del prefisso «neuro» (perché le piante non hanno neuroni), ma che le piante reagiscano agli stimoli, mostrando sofisticati processi di scelta, di pianificazione e di comunicazione, pare in effetti ben assodato. Le piante, per esempio, possono attirare con i loro nettari extraflorali predatori che le difendano dagli erbivori, e possono regolare i livelli di caffeina per favorire la memoria di impollinatori come le api senza superare la soglia che per gli insetti risulterebbe in un sapore amaro, oppure possono produrre tossine in risposta a segnali emessi da altre piante della stessa famiglia.
Quindi, sono intelligenti le piante? Imparano le piante? Dipende da che cosa intendiamo per intelligenza e per apprendimento, e da come li misuriamo. Certi termini sono usati in maniera ambigua nel linguaggio comune. Per fortuna, però, in alcuni casi le parole identificano dei concetti ben specificati nel linguaggio scientifico, che ammettono procedure precise per documentarne la presenza. Un esempio è quello dell’apprendimento associativo, o pavloviano, in cui per l’appunto vengono associati due stimoli: uno stimolo incondizionato, che evoca in maniera stabile e affidabile una risposta riflessa (o incondizionata), e uno stimolo condizionato, cioè uno stimolo neutrale che di regola non evoca la risposta riflessa.
I due stimoli che usava Pavlov erano una goccia di limone (lo stimolo incondizionato), che collocata sulla lingua del cane suscita la risposta riflessa di salivazione (risposta incondizionata), e il suono di un metronomo (lo stimolo condizionato) che di norma non provoca alcuna salivazione. Pavlov presentava ripetutamente al cane prima il suono e poi la goccia di limone. Dopo un certo numero di accoppiamenti dei due stimoli, il suono del metronomo, da solo, senza la presenza della goccia di limone, acquisiva la capacità di suscitare la risposta di salivazione. A quel punto la risposta era diventata «condizionata».
Tutti gli animali sono capaci di questa forma di apprendimento, dai pesci alle formiche, e persino i vermi. Ma le piante? Nel 2016 un gruppo di ricercatori australiani ha riferito per la prima volta che le piante di pisello (Pisum sativum L.) sarebbero capaci di apprendimento pavloviano (Gagliano et al. 2016 Sci. Rep. 6: 38427). La procedura adottata è molto ingegnosa. Le piante avevano l’opportunità di crescere scegliendo l’uno o l’altro braccio in un labirinto a Y. La comparsa di una luce serviva da stimolo incondizionato, la corrente d’aria prodotta da un ventilatore fungeva invece da stimolo condizionato. Esattamente come i cani di Pavlov emettono la risposta di salivazione alla presentazione della goccia di limone, così le piante crescono dirigendosi verso la luce. Le piante, di regola, non si dirigono invece verso una corrente d’aria, così come i cani non salivano al suono di un metronomo. Tuttavia, dopo un certo numero di accoppiamenti tra la corrente d’aria (stimolo condizionato) e la presentazione della luce (stimolo incondizionato) le piante mostravano di dirigersi verso il braccio del labirinto da cui proveniva la sola corrente d’aria, senza la luce.
La scoperta è straordinariamente importante, perché, se confermata, ci obbligherebbe a un ripensamento sulla natura dell’apprendimento: in assenza di neuroni e sinapsi deve essere presente nelle piante un qualche meccanismo molecolare che assicuri l’associazione degli stimoli (ed è interessante osservare che c’è chi pensa che anche per gli animali l’apprendimento sia legato a meccanismi molecolari interni alle cellule anziché alle connessioni tra queste, si veda la Domenica del Sole 24 Ore del 10 luglio 2017).
La prestigiosa rivista scientifica «eLife» ha però riportato in queste settimane un esperimento in cui un ricercatore statunitense, usando un maggior numero di piante e procedure rigorose di doppio cieco, non è riuscito a riprodurre il fenomeno (Markel 2020 eLife, 9:e57614). Stando a questi risultati le piante di pisello non sarebbero capaci di apprendimento associativo.
L’assenza di prove, si usa dire, non è prova di assenza. Certamente. Però l’onere della prova tocca a chi vuole dimostrare l’esistenza di un fenomeno. Si tratterà quindi di ripetere ancora, più volte se necessario, gli esperimenti, e capire come stanno le cose. Forse le piante sono capaci soltanto di apprendimento non associativo, che è quello che si verifica a seguito della presentazione ripetuta di un singolo stimolo, come accade quando ci abituiamo a un evento che si ripresenta sempre eguale, ma non di apprendimento associativo, quando si tratta invece di associare due diversi stimoli.
La morale della storia è che conviene mantenere un atteggiamento aperto ma prudente nei riguardi dell’attribuzione di capacità mentali ai diversi organismi. Non è ovvio che le piante apprendano, e forse non ne sono capaci. Non è scontato che i ratti provino empatia, e forse non ne sono capaci (si veda la Domenica del Sole 24 Ore del 3 febbraio 2013). Dobbiamo usare le regole del metodo scientifico per avere le risposte. Certo, possiamo compiere dei passi falsi, ma siamo in grado di correggerci. E tutto questo richiede del tempo.
In questi giorni vari commentatori hanno notato, con un po’ di sconforto, che «non ci si può più fidare neppure degli scienziati», perché esperti diversi ci hanno detto cose diverse in momenti diversi a proposito del Covid-19. Il fatto è che dovremmo rassegnarci ad accettare l’idea che gli scienziati non posseggano alcuna verità definitiva, ma solo un insieme di procedure, che si chiama metodo scientifico, che consente, con un po’ di pazienza, di giungere a conclusioni oggettive e provvisorie. Oggettive perché intersoggettive (posso controllare e ripetere quello che hanno fatto i miei colleghi), e provvisorie perché, come diceva l’astrofisico Carl Sagan, la scienza non è altro che obsolescenza pianificata: presto o tardi arriva qualcuno a dimostrare che non avevi ragione, o almeno non del tutto.