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 2020  luglio 26 Domenica calendario

Vere storie di pirati

1. Nel 2019, secondo le statistiche del Piracy Reporting Centre, gli episodi di pirateria a livello mondiale sono stati in tutto 119 con una leggera flessione rispetto al 2018, quando se ne erano registrati 156. Se nell’Oceano Indiano e a Aden il fenomeno sembra ormai affievolito, oggi l’hot spot mondiale è il Golfo di Guinea: l’86% degli abbordaggi a cargo e tanker lo scorso anno è avvenuto lì. In quell’area operano molte navi battenti il Tricolore, che approdano specialmente a Lagos, in Nigeria, il porto più rischioso al mondo: 11 attacchi nel 2019. Ma la minaccia è globale, come dimostra il recente assalto alla nave italiana Remas della Micoperi di Ravenna nel Golfo del Messico. La pirateria è un fenomeno costante nella storia del pianeta e non potrà mai essere debellata; cambia solo latitudini e si radica dove le condizioni socioeconomiche e geopolitiche lo consentono.
Oltre ai Caraibi, nell’immaginario collettivo sono i mari del Sud-Est asiatico la patria dei pirati. La geografia alimenta il fenomeno perché l’immenso dedalo di stretti e isole del Mar Cinese Meridionale è difficile da monitorare e connettendo due oceani tramite lo Stretto di Malacca, rappresenta una delle rotte marittime più importanti del globo.
Nell’ultimo quinquennio gli attacchi sono diminuiti sensibilmente, ma il fenomeno rimane una costante. Nella sola Indonesia nel 2015 si verificarono ben 86 incidenti, tra abbordaggi, rapine a mano armata e rapimenti di membri degli equipaggi. Gli abbordaggi a navi cisterna e portacontainer non si sono arrestati neppure quest’anno durante l’epidemia di Covid-19, anzi hanno avuto un incremento, sebbene si tratti principalmente di rapine a mano armata a navi alla fonda o prossime alla costa. Se ne ha contezza consultando le Live piracy maps costantemente aggiornate dai moderni «cacciatori di pirati», il cui quartier generale, il Piracy Reporting Centre (Prc), si trova al trentacinquesimo piano del Menara Dion, grattacielo di vetro e cemento a Kuala Lumpur sede di assicurazioni e banche d’affari.
Il Prc è il braccio operativo in Asia dell’International Maritime Bureau (Imb) con sede a Londra, una costola della Camera di commercio internazionale finanziata da grandi gruppi assicurativi. Il bureau realizza studi e statistiche sul fenomeno, ma anche indagini sul campo. Sulle piracy maps piccole gocce arancioni rappresentano gli abbordaggi riusciti, le gialle gli attacchi tentati, le rosse i rapimenti dei marittimi o della nave, le azzurre l’uso di armi da fuoco e le viola i vascelli sospetti. Colpisce l’intensità dell’arancione nello Stretto di Singapore: ben sedici episodi dall’inizio dell’anno.
I pirati hanno attaccato i vascelli armati di lame o coltelli mentre le navi erano alla fonda o procedevano lentamente alla via. Del resto in questa zona di mare il traffico marittimo è intensissimo e si registrano forti complicità tra le organizzazioni criminali che controllano di fatto alcune delle numerosissime isole locali e le forze dell’ordine, spesso corrotte. Più a nord, nell’isola di Sumatra, altro hot spot è la regione dell’Aceh dove l’attacco alle navi di passaggio è una forma comune di criminalità. Nel 2020 due sono stati gli abbordaggi nella rada portuale di Belawan, con un bottino di modesto valore. Altri tre abbordaggi hanno avuto luogo poco a nord di Giacarta, nello stretto di fronte a Sumatra; altri ancora nel Mar di Giava e poi nelle Filippine, uno nel porto di Batangas (a sud) e l’altro nella Baia di Manila. Anche in questi casi, rapine a mano armata. Ma l’armed robbery at sea non è l’unica tipologia di pirateria dei mari asiatici, dove spesso gli equipaggi vengono rapiti e le navi paiono scomparire nel nulla.
Qualche anno fa realizzai in collaborazione con loro un’inchiesta sulla pirateria a livello globale (Nei mari dei pirati, Longanesi), lavorando per un periodo a Kuala Lumpur. È infatti nell’ufficio del Prc, poco più di 100 metri quadri, che vengono monitorati gli attacchi nei mari del mondo, in particolare quelli dell’Asia sudorientale. Otto uomini ben addestrati che valgono un esercito raccolgono le segnalazioni degli abbordaggi e provvedono ai primi soccorsi allertando le unità navali più vicine. L’allarme arriva tramite lo ShipLoc, un sistema satellitare di rilevamento a bordo di tutti i mercantili, oppure tramite una help-line attiva 24 ore su 24. Gli attacchi sono tanti, in media cinque alla settimana. Nella sala d’aspetto del Piracy gigantesche mappe dei cinque continenti, specie delle zone più calde, sono costellate da spilli con la testina rossa.
Il Piracy collabora con tutte le Marine del mondo, le pareti della sala operativa sono piene dei crest di unità navali statunitensi, francesi, tedesche, olandesi. C’è anche quello della Marina italiana. Decine sono gli attestati e i riconoscimenti tributati da governi e compagnie marittime a questa importante istituzione. Non potrebbe essere diversamente: ogni abbordaggio è una partita a scacchi con il destino dove sono in gioco vite umane, navi e carichi da milioni di dollari. È un lavoro di diplomazia, ma anche di investigazione, perché sono le navi fantasma (ghost ships) a far perdere il sonno agli uomini del centro. Molte si volatilizzano per frodi assicurative, spesso con la complicità del comandante e dell’equipaggio, ma la maggior parte è catturata dai pirati che le camuffano e le rimettono in circolazione con nome e documenti falsi, dopo aver sbarcato il carico in qualche sperduto approdo asiatico.
Il meccanismo è semplice: le organizzazioni criminali locali, che si spartiscono i mari asiatici grazie alla complicità dei funzionari portuali, individuano una preda appetibile che trasporta carichi facilmente rivendibili come alluminio, olio di palma o carburante, commissionano il sequestro a una gang specializzata. I pirati arrivano su veloci e sottili imbarcazioni chiamate pancung, spinte da motori fuoribordo. Il tekong (pilota) porta la barca nella scia e da lì i lanun – che alcuni definiscono scoiattoli volanti per l’abilità nell’arrampicarsi – l’abbordano con rampini o lunghe canne di bambù munite di uncino. Solitamente sono armati di coltelli (parang), pistole e mitra e non si fanno scrupoli a usarli.
La nave viene poi portata in un luogo sicuro e il carico passa su un altro cargo, che lo rivenderà con l’aiuto di autorità doganali e di polizia corrotte. Gli equipaggi sequestrati sono abbandonati in mare su zattere o uccisi. Quindi la nave, dopo essere stata ridipinta, rinominata e munita di documenti falsi, è venduta o utilizzata per altre attività criminali, come il trasporto di clandestini e di droga.
2. L’equipaggiamento dei nuovi pirati del Mar Cinese divenne noto dopo il sequestro avvenuto nel 1998 sulla nave cisterna Pulau Mas, un inafferrabile vascello pirata dalle svariate identità che per sfuggire alle Marine di Indonesia e Malaysia stazionava sempre in acque internazionali.
La trappola al suo cinquantenne armatore scattò nell’isola di Batam, dove Chew Cheng Kiat, alias Chong Kee Fong e più conosciuto come Mr Wong, si era recato per passare una notte d’amore con la bellissima compagna giavanese Ayu Nani Sabri, maitresse di un night club a Nagoya. Arrestato il capo, tutti i membri dell’organizzazione furono presi e la nave sequestrata. Nella stiva furono rinvenuti quindici paia di manette, quattordici maschere in stile ninja, tre baionette, un motoscafo con un motore da duecento cavalli, un timbro dell’immigrazione indonesiana, un datario per falsificare i documenti, certificati navali contraffatti con cinque nomi di navi, otto sagome per differenti nomi di navi, dodici scatole di vernice di vari colori, un gran numero di bandiere. Quando le forze dell’ordine chiesero ad Arief Lasenda, comandante del Pulau Mas, a che servisse quell’attrezzatura, egli rispose candido: «È la normale dotazione di bordo, non lo sapete?».
Mr Wong è poi uscito di prigione grazie a uno sconto di pena per buona condotta, ma è singolare che nei quattro anni in cella non abbia mai rivelato né agli investigatori, né ai compagni di prigionia la sua vera identità. Lo si è sempre ritenuto nativo di Singapore, dov’era stata rilasciata la patente che portava al momento dell’arresto, ma successive indagini hanno appurato che il documento apparteneva a un cuoco militare. Nessuno sa dove sia attualmente, né se abbia ripreso la via del mare.
Dopo che la nave è stata ridipinta e camuffata, rintracciarla è come cercare un ago nel pagliaio. Le distese del Mar Cinese sono immense e anche se l’imbarcazione è sottoposta a un controllo, la documentazione può essere formalmente in regola: ottenere una nuova registrazione di un registro compiacente come quelli della Liberia o di Panama costa qualche migliaio di dollari. Come si rintraccia allora una nave scomparsa? La segnalazione può arrivare al Piracy dall’armatore insospettito da un improvviso cambio di direzione della nave o dalla mancanza di collegamenti con il suo comandante, oppure dal sistema di rilevamento ShipLoc se la posizione del vascello appare nitida sullo schermo del computer e si può seguirne la rotta.
Viene quindi avvertita la Marina del paese costiero più vicino perché intervenga prontamente, ma spesso l’inseguimento non riesce e la nave fugge in acque internazionali o in quelle di un altro Stato. Pur essendosi intensificati gli accordi di collaborazione tra i paesi asiatici, non è poi detto che tra le varie Marine vi sia coordinamento e che esse abbiano unità adeguate all’intervento. Nello Stretto di Malacca la Marina malese solo da qualche anno ha intensificato il controllo delle proprie acque, al pari di quella indonesiana, che possiede mezzi scarsi e non idonei.
Viene allora emanato un telex a tutti i mercantili in zona con le caratteristiche, il colore e i segni identificativi della ghost ship. Gli occhi sul mare si moltiplicano e chi fornisce l’informazione giusta ha diritto a una ricompensa. Più sono alti il valore della nave e del carico, maggiore la taglia messa a disposizione dal Piracy e dai suoi finanziatori, per lo più grandi gruppi assicurativi del settore navale. È ovvio che per loro è fondamentale l’attività di prevenzione. In caso di sinistro è meglio ritrovare la nave che essere costretti a pagarne l’intero valore.
Come nell’ufficio degli sceriffi del vecchio West, sul tavolo dell’unità di crisi del Piracy troviamo una serie di special alerts, piccoli manifesti con la taglia delle navi scomparse. Eccone alcuni che ho esaminato a suo tempo.
Uno offriva 100 mila dollari a chi segnalasse la motocisterna Global Mars di bandiera panamense; si specificava che il denaro sarebbe stato pagato solo a nave ritrovata. Lo special alert forniva tutte le informazioni per identificare l’imbarcazione: «Numero IMO 8502731, anno di costruzione 1985, cantieri giapponesi, lunghezza 105,20 metri, motori Makita diesel». Vi erano anche una foto e una sezione longitudinale della nave con i colori delle varie componenti: «L’opera viva è rossa, l’opera morta e il ponte sono blu marino, le cabine della plancia bianco panna, le tubazioni sul ponte grigie». Si indicava poi l’ultima posizione: «La nave scomparsa Global Mars, partita da Port Kelang il 22/2/2000 e diretta a Haldia, in India, trasportava un carico di derivati dell’olio di palma. L’ultima posizione segnalata, del 23/2/2000, è 07°32’ Nord-097°32’ Est. Da allora si sono persi i contatti. È possibile che la nave sia stata assalita e sequestrata. La sorte dei diciassette membri dell’equipaggio, tra i quali sette uomini di nazionalità coreana e dieci del Myanmar, è ignota». Della Global Mars non si seppe più nulla sino a che l’equipaggio, gettato in mare dai pirati, venne recuperato allo stremo delle forze dopo giorni in balia delle onde da alcuni pescatori al largo dell’isola di Phuket.
Il secondo special alert riguardava il cargo Inabukwa¸ per il ritrovamento del quale si offrivano 50 mila dollari. Fu abbordato e sequestrato il 15 marzo del 2000. Era partito da Pangkalbalam (Indonesia) diretto a Singapore con un carico di stagno e pepe bianco per un valore di circa 2,2 milioni di dollari. Verso le 19.50, in una posizione stimata nelle coordinate longitudine 00.37 sud e latitudine 105.25 est, il comandante e i ventidue membri dell’equipaggio furono abbandonati in mare senza acqua né viveri. La zattera si arenò sulla spiaggia dell’isola di Pulau Savap, in Indonesia, dove i superstiti vennero trovati per caso il 18 marzo da alcuni pescatori fermatisi per rifornirsi d’acqua. La caccia ebbe successo e la Guardia costiera filippina localizzò l’Inabukwa il 25 marzo. I pirati avevano già cambiato i connotati dell’imbarcazione: ora si chiamava Chungsin, ma il vero nome coperto maldestramente con vernice nera a prua era più che riconoscibile. Vennero arrestati sette uomini di nazionalità indonesiana, che dopo una breve detenzione furono però liberati perché il fatto era avvenuto fuori dalle acque territoriali filippine, quindi non era punibile.
I sequestri non sono mai a lieto fine nel Mar Cinese. Nel caso del Cheung Son le cose andarono molto male sia per l’equipaggio sia per i pirati. Il cargo, con un carico di scorie della lavorazione dell’acciaio, fu abbordato nel novembre del 1998 da un commando travestito da doganieri cinesi. I ventitré componenti dell’equipaggio furono prima bastonati a morte e poi scaraventati fuori bordo, coi corpi zavorrati. Il mare restituì le prove del delitto: sei dei cadaveri vennero ripescati in avanzato stato di decomposizione da alcuni pescatori cinesi. La notizia fece scalpore e le indagini portarono all’arresto di cinquanta persone, tra cui i doganieri che avevano fornito ai pirati le divise e insospettabili colletti bianchi, accusati di essere i mandanti. Non ci si spiega perché degli uomini d’affari avessero pagato alla gang più di un milione di dollari per il sequestro del Cheung Son, per poi rivenderlo dopo qualche tempo a una società cinese per soli 36 mila dollari. A che serviva la nave? Perché tanta brutalità? In Cina la giustizia è rapida come una mannaia: in soli sei giorni i pirati e i loro complici vennero processati dal tribunale di Shanwei, i doganieri fucilati in uno stadio, mentre il capo della gang Sony Wei e undici suoi sodali impiccati. Si avviarono al patibolo sbronzi di grappa di riso cantando il ritornello di Cup of Life di Ricky Martin: «Go, go, go! Alé, Alé! Alé!»
Ogni ghost ships è una storia: Neplime Delima, Silver Med, Anna Sierra, Petro Ranger, Hong Peng, Virgin Pearl, Tenyu, Alonda Rainbow. Questi i nomi nell’archivio del Piracy, voluminosi faldoni colmi di rapporti ufficiali, indagini, foto delle navi e degli scomparsi.
3. Johan Ariffin, protagonista di un’inchiesta su National Geographic, è diventato per qualche tempo il pirata più famoso del mondo. Per incontrarlo nelle patrie galere malesi bisognava mettersi in fila. Eppure, questo quarantaquattrenne di nazionalità incerta – anche il nome potrebbe essere falso, secondo la polizia – non ha l’aspetto di un pericoloso criminale; assomiglia più a un anonimo ladruncolo con una cera triste, sguardo spento, voce fioca e le borse sotto gli occhi di chi non dorme da una settimana.
La sua carriera di bucaniere nasce in un caffè di Batam, l’isola principale dell’arcipelago delle Riau, quando un marinaio indonesiano di nome Lukman lo contatta per uno shopping: così si chiamano in gergo gli abbordaggi nello Stretto di Malacca. Si tratta di mettere insieme una ciurma fidata e abbordare una nave cisterna, la Neplime Delima, che trasporta 7 mila tonnellate di gasolio per un valore di tre milioni di dollari. Ariffin, che è un bravo motorista navale, deve solo portare il tanker in acque internazionali, consegnarlo a chi di dovere e il gioco è fatto. Per lui ci sono diecimila dollari. Gli affari in quel momento vanno male e l’uomo accetta. Non gli è difficile rimediare il resto dell’equipaggio pirata, le bische di Nagoya sono piene di marinai sul lastrico.
L’appuntamento è per la notte successiva al porto di Pinang dove li raggiungono altri componenti della banda che vengono dall’Aceh, la regione a nord di Sumatra. Servono uomini forti ed esperti nel maneggiare i parang nel caso ci sia bisogno di fare del lavoro sporco. La banda ruba un motoscafo, lo dipinge di blu e attende il segnale della talpa, che si trova già a bordo della Neplime Delima. In molti abbordaggi la talpa gioca un ruolo determinante, spesso è lo stesso comandante a «vendersi» il carico ai pirati in cambio di una percentuale sul bottino. Ma in questo caso l’informatore è un marinaio che, appena il tanker arriva al traverso di Pinang, invia un sms con la posizione della nave e l’orario del suo turno di guardia che sarebbe iniziato di lì a poco.
Ariffin e compagnia partono di volata. Con l’aiuto del gps intercettano e abbordano la Neplime Delima con a bordo diciassette uomini, compreso il capitano. Lui è il primo a essere bloccato e legato; poco dopo è costretto a ordinare ai suoi di arrendersi. Tutti obbediscono, tranne uno. Il suo nome è Mohamed Amid, ventotto anni. Non è un eroe, ma quando uno dei pirati gli punta un coltello alla gola gli sferra d’istinto una gomitata e riesce a scappare e nascondersi sotto una tubatura del ponte principale. Mentre recita le ultime preghiere vede una cima legata al tientibene: è quella del motoscafo dei pirati! Con un balzo prova a superare il parapetto, inciampa, e rovina con un tonfo nello scafo. I minuti che seguono sono interminabili, Mohamed cerca di tagliare la spessa cima che tiene legata la barca con un coltellino tascabile, sino a che, con la forza della disperazione, ne ha ragione. E fila via. Il cielo è coperto, piove, il marinaio ha freddo, trema, non riesce a orientarsi. Da lontano sente ancora le grida del suo comandante, lo stanno picchiando perché sveli dov’è la cassa di bordo.
Mohamed Amid sceglie una rotta, segue l’istinto e dà manetta al motoscafo. La buona sorte lo porta nell’isola di Langkawi dove avvisa la polizia malese. L’inseguimento della Neplime Delima con i veloci gommoni armati di mitragliera della Guardia costiera è breve, la nave non va a più di dieci nodi. Johan Ariffin cerca di raggiungere le acque internazionali, ma non riesce a mettersi in salvo. Chi poteva sospettare che un abbordaggio fallito lo avrebbe reso una celebrità?
Per scoprire cos’è avvenuto al Silver Med e alle altre navi bisogna tornare indietro nel tempo sino alle radici del fenomeno delle ghost ships. Negli anni Settanta le frodi assicurative nel settore marittimo nel Sud-Est asiatico hanno un’improvvisa impennata. Le bande criminali delle Filippine, di Hong Kong e di Singapore fiutano l’affare per prime, alcuni armatori da tempo si rivolgono a loro per far sparire navi di cui denunciano poi la scomparsa e intascare i premi assicurativi. La pratica si diffonde così tanto che nel 1979 si registra una quarantina di casi sospetti e le richieste di risarcimento ammontano a oltre 100 milioni di dollari in due anni. La malavita comprende immediatamente che non vale la pena affondare quelle navi: possono essere rivendute, o meglio riutilizzate. L’esperienza acquisita nei primi affari porta le organizzazioni criminali a tessere, specialmente in alcuni porti di Cina, Indonesia e Filippine, una rete di complicità tra funzionari doganali, portuali e forze di polizia.
Il più noto pirata degli anni Ottanta è il capitano Emilio Chengo. Gli abbordaggi gli fruttano milioni di dollari con i quali diventa il re dei night club di Manila. È appassionato di belle donne, ma soprattutto di auto sportive: ne ha una collezione infinita, comprese due Ferrari, una rossa e una gialla. L’organizzazione di Chengo si distingue per la puntualità quando gli si commissiona il sequestro di una nave: in tre giorni viene consegnata nel luogo prestabilito a prezzo modico: per una petroliera o un cargo di stazza media ci vogliono trecentomila dollari.
La specialità del pirata filippino è la rapidità con la quale cambia identità alla nave. Una delle vittime è il Silver Med, cargo di 5.350 tonnellate battente bandiera liberiana che viene sequestrato nella Baia di Manila il 13 settembre 1988. Due settimane dopo è avvistato in acque internazionali di fronte a Singapore con il nome Lambamba e solo un mese dopo nel porto di Huang Pu, in Cina, con il nome Sea Rex. Nel gennaio del 1989 riappare denominato Stamford sulle rotte tra Malaysia e Singapore: porta acciaio e olio di palma, è diretto a Hong Kong. Gli ultimi viaggi li fa nelle Filippine: a poppa, dipinta di bianco, la scritta Star Ace. Lì viene infine fermato dalle autorità.
Chengo finisce la brillante carriera agli inizi degli anni Novanta quando è arrestato in un appartamento di Manila dall’Fbi mentre progetta insieme a tutta la gang l’ennesimo colpo. Sul tavolo ci sono le mappe e i piani dettagliati dell’abbordaggio. Secondo le autorità il pirata playboy viene ucciso dai secondini mentre cerca di evadere dal carcere di Manila, ma il tentativo di fuga del prigioniero è una scusa ricorrente nelle Filippine quando bisogna sbarazzarsi di detenuti scomodi.
4. Nei primi anni Novanta la bandiera nera con il Jolly Roger lascia il posto a un rosso stendardo con falce e martello, perché le autorità della Repubblica Popolare Cinese operano una serie di sequestri che tanto assomigliano ad azioni di pirateria. Nel triangolo di mare tra la Cina, Taiwan e le Filippine si registrano decine di abbordaggi sospetti. Il governo di Hong Kong e gli agenti marittimi sono in fermento, il South China Morning Post scrive: «Pechino continua a tacere senza intervenire e ciò autorizza le peggiori ipotesi. I bucanieri sono forse protetti? Chiunque siano, è certo che né il governo centrale, né quello di Canton hanno la capacità o la volontà di punirli. La Repubblica Popolare è in preda all’anarchia o è paralizzata dalla corruzione?».
Nel Mar Cinese è guerra. Le motovedette militari nel 1992 sferrano trenta abbordaggi, mitragliano le navi, le fermano con i razzi e a volte si sfiora la tragedia: quando il bersaglio è un tanker colmo di kerosene, o quando, come nel caso dell’Arktis Star, porta carta da macero e il ponte è devastato dalle fiamme. I militari di Pechino salgono a bordo e sotto la minaccia delle armi dirottano le navi in porto. Gli equipaggi sono costretti a confessare di essere contrabbandieri, così il carico e il cargo vengono sequestrati. La liberazione costa migliaia di dollari. Si instaura una specie di guerra da corsa, tanto che alcuni pirati dicono di agire sotto la protezione delle autorità. Così dichiara dopo l’arresto il famigerato capitano Herman, responsabile di decine di abbordaggi, tra i quali quello del Petro Ranger, un tanker con a bordo 9.600 tonnellate di gasolio. Gli investigatori del Piracy Reporting Centre ritrovano molte ghost ships nei porti cinesi. Una è il Tenyu, ormeggiata nello scalo di Zhangjiagang, rinominata Sanei 1. L’equipaggio è scomparso e non verrà più ritrovato; al suo posto, una ciurma indonesiana.
Stesso destino tocca all’Anna Sierra, che trasporta un carico di zucchero per cinque milioni di dollari. Abbordata il 12 settembre 1995 nel Golfo di Thailandia, i pirati gli cambiano subito il nome in Arctic Sea, ma sono intercettati dalle autorità che li portano a Banfong. L’Imb, dopo estenuanti trattative, riesce a dimostrare alle autorità che la nave è in realtà l’Anna Sierra; a quel punto i cinesi chiedono una tassa per il rilascio agli armatori, ma questi si rifiutano di pagare. Il carico ben presto sparisce, la nave viene demolita e i pirati sono rispediti a casa con il foglio di via, senza condanna.
Mak Joon Num, allora direttore del Maritime Institute of Malaysia, riferisce in un’intervista a Newsweek che in Cina alcuni porti operano in un regime di costante corruzione svolgendo la stessa funzione che Portobello aveva per i bucanieri dei Caraibi. Il parallelo è calzante. In gioco non c’è solo la pirateria, ma la tratta dei nuovi schiavi. Servono decine di navi cargo da utilizzare come negriere, generando un traffico di esseri umani che vale milioni di dollari. Ma questa è un’altra storia.