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 2020  luglio 26 Domenica calendario

Così i talebani si riprendono l’Afghanistan

I loro volti li potete immaginare, non occorre molta fantasia: quante volte noi bottegai dell’umanesimo, piazzisti di diritti umani posti al servizio dei peggiori interessi, di astrazioni vuote, menzogne prive di sostanza li abbiamo contemplati. Sono coloro che hanno creduto nelle nostre parole, che hanno combattuto.
Che hanno rischiato la vita per noi. Non solo imbracciando un fucile, ma indossando un vestito proibito, andando a scuola, uscendo di casa, leggendo un libro, rifiutando una preghiera fanatica. Guardateli. Il paesaggio di montagne e rovine attorno a loro è ancora gonfio di battaglia, fragore, violenza e rischio. Eppure lo sanno. È già tutto deciso. Gli altri hanno vinto. Ora pagheranno.
È sempre così. Sono immobili, non si guardano, emanano un senso di eternità. Hanno paura, è logico. C’è già la morte lì con loro. La morte come amica intima. È l’oggetto invisibile che cancella il mondo. Oggi sono afgani. Prima erano gli harkis algerini, i vietnamiti, i cambogiani, i curdi. Arruolati e traditi. Spudoratamente. Li abbiamo lasciati indietro nella nostra storia di Occidente senza macchie, per loro non abbiamo nemmeno acceso una luce alla finestra perché i superstiti del naufragio, se c’erano, trovassero la strada. Non sono nemmeno figliol prodighi. Come ricostruirsi una vita? Le illusioni che abbiamo creato in loro sapendo di mentire erano la loro vita, l’unica possibilità. Abbiamo fatto recitare una parte che non era autentica perché il finale lo abbiamo scritto accordandoci con i loro nemici mortali.
Non parlo dei collaborazionisti, dei Quisling per quattro soldi, i trafficanti e i mestatori. Quelli si sono salvati. Sempre. Parlo dei poveri. I soli che sembrano reali, così reali che viene voglia di accarezzarli, di toccarli con un dito, così entusiasti delle nostre parole d’ordine, così disposti a morire per noi.
La disfatta della fuga
Adesso è la volta dell’Afghanistan. L’Occidente, l’America di Trump (ma Obama non annunciava la stessa conclusione?) trasloca, scappa un’altra volta. Fatterello insipido o miserevole dietro cui c’è comunque una disfatta. Svuotiamo i magazzini, in queste ingloriose ritirate la roba è importante più degli uomini che lasciamo dietro. Mettiamo fuori per così dire le interiora, bruciamo quello che non ci serve più, ovvero i «nostri amici afgani». Chiusi i visi, sarcastici e cupi gli umori. Fine delle braverie minacciose, i «matamoros» dei corpi speciali, le meraviglie dei droni. In fondo è la rivincita di Bin Laden. Escono naturalmente le nottole e gli sciacalli. Non facciamo meno duro il responso cercando di ingannare prima di tutto noi stessi.
A Doha l’America (e gli altri, la Nato, i Paesi della coalizione? I nostri 52 morti? Abbiamo fatto la guerra insieme, forse ci meritavamo di fare insieme la pace?) ha appena consegnato l’Afghanistan ai Taleban, fino a ieri erano il diavolo e ora sono diventati il male minore. Si discute, con accanimento: se in fondo i Taleban non abbiano anche i loro moderati, i pragmatici… non sono mica l’Isis. Come se la ferocia dei fanatici avesse dei gradi di temperatura. Comunque l’importante è che la guerra sia finita, non tutte si possono vincere... I nostri ragazzi sono a casa.
Carne da cannone
Già: finita. Ci sono nei commenti con cui si tenta di verniciare la disfatta americana ipocrisie, abusi di sofismi che portano a una epilessia concettuale ripugnante.
E gli afgani? Dove li mettiamo gli afgani nostri in questa pace? Pongo la domanda che svela come tutto sia impuro in questa tragedia che brucia uomini e donne come se fossero scorie di cui è piena.
Ci sono gli afgani che si sono arruolati nell’esercito perché bisognava «lottare contro i terroristi», non era onorevole che lo facessero solo gli occidentali. La media dei morti in combattimento tra loro è di un migliaio al mese, carne da cannone infagottata in divise che vengono dai fondi di magazzino, nella guerriglia sarebbero invincibili come il nemico, ma devono adattarsi a tattiche imparaticce che non capiscono.
E poi ci sono le donne che hanno creduto che fosse arrivato davvero il momento di gettare il burqa nella spazzatura, mostrare il volto, studiare, farsi eleggere al parlamento, lottare. E gli afgani che credevano davvero fossimo lì per far volare gli aquiloni e mandare i bambini a scuola, cancellare i tribalismi, le madrase dei fanatici di dio, i sudici affari per procura dei Servizi pachistani. Che meravigliosi veleni! Stavano inventando non soltanto la loro patria: creavano se stessi.
Gli americani partono. Sanno che ormai è questione di settimane. Questi giorni e queste ore esulano dal tempo normale. Non possono essere definiti lunghi o brevi. Sono separati da tutto, sono ridotti a se stessi. Non è ancora venuto il momento di gettar via le armi, bruciare le uniformi e le piastrine di riconoscimento, riprendere il burqa, distruggere musica, film, libri proibiti. Tutto ridiventa proibito.
Cancellare le tracce non servirà, non è mai servito. Per chi resta, in Afghanistan, in Iraq, in Algeria, in Vietnam, gli sbagli ti restano appiccicati addosso, non ci sono revisioni o seconde stesure.
Il destino degli «harkis»
Qualcuno dovrebbe raccontare agli afgani la storia degli «harkis», i lealisti che combatterono a fianco della Francia tra il 1954 e il 1962 in Algeria. Il generale De Gaulle non aveva posto per loro nella sua nuova Grandeur. A chi gli ricordava che avrebbero subito le vendette dei vincitori, che la Francia aveva la responsabilità di salvarli rispose, implacabile: «Beh, allora soffriranno!». Furono linciati, massacrati, uccisi per strada: il numero non si sa, nelle vendette i conti non si fanno, tra trentamila e centomila, loro e le famiglie.
E Saigon, aprile 1975? Le limousine che portano all’ambasciata americana gli ultimi notabili che hanno il visto per fuggire, gli elicotteri freneticamente fanno la spola prima che i vietcong entrino in città. Gli autisti hanno il giubbetto antiproiettile ma indossano anche l’elegante berretto bianco. Ci vuole stile... La gente comune ha capito: tutto è finito, comincia a rifluire verso i quartieri poveri di periferia dove cadono i proiettili di mortaio dei vincitori. I soldati svuotano i caricatori, gettano le divise nei vicoli, saccheggiano i negozi. Li ritroveremo sui tragici battelli dei boat people.
Nel 1991 a Kabul altri stranieri che avevano promesso la modernità e le sue meraviglie (allora era il socialismo e la rivoluzione) partirono: anche loro dicevano che non si poteva vincere sempre, che l’Afghanistan era un inferno dove non c’era modo di metter ordine. Addio fraternità proletaria.
Arrivarono i vincitori, sapevano tutto, conoscevano tutti, quelli che avevano creduto, che si erano esposti, nessuno venne dimenticato o riuscì a nascondersi. Le guerre civili hanno una memoria metodica. La partita è di nuovo finita, la lunga notte di Kabul ricomincia. Sono loro i poveri, gli entusiasti, gli «stupidi» che pagheranno. Gli altri, i notabili, i presidenti, gli speculatori, i ladri sono già partiti.
L’arrivo dei Taleban lo guarderanno in tv, in Turchia per esempio dove hanno affittato ville e quartieri e si consoleranno dell’esilio con i soldi al sicuro nelle banche dell’ospitalissimo Erdogan.