Corriere della Sera, 26 luglio 2020
Alex al massimo, finché ce n’è
Vado al massimo, finché ce n’è. A 10 anni come a 50, con le gambe o senza, sui primi go kart fino all’ultima handbike, incollato alla strada, rasoterra, tutt’uno con la sua ombra. Alessandro Zanardi non ha fatto altro che inseguire mai stanco il proprio destino, fino alla curva cieca di una strada di campagna in Toscana.
Quando la sfortuna, una sfortuna colossale, gli presentò il primo conto, 15 settembre 2001, c’erano le immagini, i filmati, persino i suoni, a dimostrare da quale sprofondo fosse riuscito a rimettere fuori la sua bella faccia da ragazzo, benedetto da una specie di grazia infrangibile.
Stavolta, il 19 giugno scorso, soltanto disegni, simulazioni in 3D e le prime frasi raggelanti dei referti medici. Ma dopo il fracasso della sua testa contro un camion, Alex supera la prima notte, poi la seconda, la terza. La prima foto è quella della mano del figlio Niccolò posata sopra la mano sedata del padre. «È una tigre, ce la farà». Lo aspetta una salita come l’Himalaya, dice un medico, ma se c’è uno che può riuscirci è lui.
Sandrino da Bologna, nato pilota da un idraulico e una sarta, è uno dei pochi umani che rendono possibile l’impossibile. Dopo essere stato tagliato a metà su un circuito di Formula Cart in Germania, si riprende la vita e la gloria diventando il più formidabile campione paralimpico della Storia. E a quasi 54 anni è ancora lì, nel mezzo, al centro del campo, a inseguire un nuovo miraggio, la prima Olimpiade dopo il Covid, l’anno prossimo, Tokyo 2021. Già 12 ori al collo, il 13 porta sfortuna soltanto a chi crede a queste scemenze.
Qualsiasi cosa fosse restata di lui dopo la tenebrosa assenza da coma, proprio su quella avrebbe fatto leva per risorgere ancora e ancora, sorretto agli inizi dalla sua anima sorella, la moglie Daniela, dall’onda immensa di bene popolare che gli inonda le vene, e anche dall’orgoglio di essere il primo uomo a sbarcare due volte sulla Luna e per due volte tornare a casa. Non a riposare, però. Tornare per ripartire, come Omero condannò per sempre Ulisse. Tornare per trovarsi un’altra sfida, arrangiare qualche marchingegno dei suoi per stupire prima di tutti se stesso e il bambino che gelosamente si è custodito dentro.
Questo abbiamo sperato, il prodigio bis, e questo continuiamo tenacemente a sperare, al di là di ogni evidenza e ragione, in conflitto quotidiano tra la rassegnazione per una fine da sfinimento e la meraviglia di un’altra resurrezione. In mezzo, c’è il tempo sospeso di un’attesa senza scadenze, di respiri trattenuti come davanti a una sagoma che cammina incerta su un filo teso sopra un vuoto senza rete.
Dopo i lunghi giorni del buio, il primo sorriso del bambino Zanardi, se c’è stato, l’avrà sicuramente regalato a Daniela, al suo Niccolò, e per rimbalzo a quella parte segreta di ciascuno di noi, dove teniamo nascosti gli arcobaleni e i sogni impossibili.
Tieni gli occhi chiusi quanto vuoi, campione. Non c’è fretta. Noi ti aspettiamo buoni buoni, finché vorrai, finché ce n’è. Tifando a bocca chiusa, per non fare rumore.