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 2020  luglio 26 Domenica calendario

L’inchiesta su Fontana, spiegata

Con parte dei soldi di un proprio conto in Svizzera, sul quale nel 2015 aveva fatto uno «scudo fiscale» per 5,3 milioni detenuti fino ad allora da due «trust» alle Bahamas, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ora indagato per l’ipotesi di «frode in pubbliche forniture», il 19 maggio cercò di fare un curioso bonifico per arginare — 4 giorni dopo una generica intervista di Report — il rischio reputazionale insito nei 75.000 camici e 7.000 set sanitari venduti per 513.000 euro alla Regione il 16 aprile dalla società Dama spa del cognato Andrea Dini e (per il 10%) della moglie Roberta. Andò all’Unione fiduciaria, che gli amministra il «mandato fiduciario misto» da 4,4 milioni accennato a pagina 3 del modulo sulla «situazione patrimoniale» dei politici sul sito online della Regione, e tentò di bonificare alla Dama spa del cognato 250.000 euro: cioè gran parte del mancato profitto al quale il cognato l’indomani sarebbe andato incontro facendo il 20 maggio, in una mail alla centrale acquisti regionale Aria spa diretta dall’ex Gdf Filippo Bongiovanni, l’unilaterale bel gesto di tramutare in donazione alla Regione l’iniziale vendita dei 75.000 camici, e di rinunciare a farsi pagare dalla Regione i 49.353 camici e 7.000 set già consegnati.
Ideato per poter in futuro dire «vabbè, vero che nel marasma dell’emergenza Covid mio cognato stava vendendo alla mia Regione i camici, ma guardate che, appena l’ho saputo, per scrupolo ho rimesso persino soldi di tasca mia», la mossa di Fontana è tuttavia non agevole da conciliare con l’unica sua posizione pubblica il 7 giugno: «Non sapevo nulla della procedura e non sono mai intervenuto in alcun modo».
Intanto perché il presidente ha saputo invece sin dall’inizio dell’avviato rapporto commerciale tra cognato-fornitore e Regione-acquirente, in violazione del «Patto di integrità» anti-conflitti di interesse: e lo ha saputo — senza fare salti di gioia, ma nemmeno senza dare indicazione che l’inopportuno affare fosse bloccato — perché a informarlo da subito fu uno degli uomini a lui più vicini: il suo assessore Raffaele Cattaneo, capo dell’unità di emergenza che cercava ovunque camici.
Inoltre i soldi per il bonifico arrivano da un suo conto in Svizzera nella banca Ubs Ag. Del tutto lecito. Ma la cui delicatezza — per un presidente di Regione che non ne ha mai fatto alcun cenno pubblicamente — sta nel fatto di essere il frutto di una voluntary disclosure: cioè della legge per favorire il rientro di capitali illecitamente detenuti all’estero, con la quale nel settembre 2015, dopo la morte in giugno della 92enne madre Maria Giovanna Brunella, a titolo di erede l’allora sindaco di Varese «scudò» 5 milioni e 300.000 euro, detenuti in Svizzera da due «trust» (strumenti giuridici di stampo anglosassone per proteggere il patrimonio da possibili pretese), creati alle Bahamas nel 2005 (dopo inizio nel 1997) quando Fontana presiedeva il Consiglio regionale, e nei quali la madre dentista figurava «intestataria», mentre Fontana risultava in uno il «soggetto delegato» e nell’altro il «beneficiario economico».
Per di più, la milanese Unione fiduciaria, incaricata il 19 maggio da Fontana del bonifico, blocca il pagamento perché in base alla normativa antiriciclaggio non vede una causale o una prestazione coerenti con il bonifico, disposto da soggetto «sensibile» (come Fontana) per l’incarico politico. E così la fiduciaria in gran segreto fa una «Sos-Segnalazione di operazione sospetta» all’Unità di informazione finanziaria di Banca d’Italia, che la gira a Gdf e Procura. La Gdf va ad acquisire gli atti nella fiduciaria di via Amedei, e il 9 giugno ascolta come teste A. M., «responsabile della Funzione antiriciclaggio». Due giorni dopo, l’11 giugno, Fontana di colpo chiede alla fiduciaria di non fare più il bonifico che era così urgente.
E il cognato? Invece di regalare ad Aria spa anche i 25.000 restanti camici degli iniziali 75.000 tramutati in donazione alla Regione, per rifarsi del mancato guadagno cerca invano (attraverso una agente a provvigione) di rivenderli alla casa di cura varesina «Le Terrazze», a 9 euro l’uno anziché 6. Ovvio che l’imprenditore Dini il 20 maggio ben potesse rinunciare al proprio diritto di vedersi pagare dalla Regione a 60 giorni le fatture emesse sui 49.353 camici e 7.000 set già consegnati. Ma ieri nell’interrogatorio di Bongiovanni (difeso dall’avvocato Domenico Aiello) si è compreso che i pm dell’aggiunto Maurizio Romanelli stanno verificando se Dini potesse sottrarsi anche al dovere contrattuale di comunque fornire alla Regione (fosse a titolo di regalo o in esecuzione di una vendita) l’intera quantità per la quale si era impegnato il 16 aprile: e cioè anche i restanti 25.000 camici, sui quali la Regione faceva affidamento perché in emergenza aveva un disperato bisogno di 50.000 camici al giorno (obiettivo talmente arduo che non fu mai raggiunto in alcun giorno). E invece la Regione di Fontana non li pretese dal cognato di Fontana. Ecco perché Bongiovanni e Dini, sinora indagati dai pm Furno-Scalas-Filippini per «turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente», lo sono ora anche (ma qui in concorso con Fontana) per l’ipotesi di «frode in pubbliche forniture».
«Da pochi minuti — dice il governatore Fontana su Facebook dopo la notizia Ansa delle 23.06 — ho appreso di essere stato iscritto nel registro degli indagati. Duole conoscere questo evento, con le sue ripercussioni umane, da fonti di stampa. Sono certo dell’operato della Regione Lombardia che rappresento con responsabilità».


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«Ma l’Iban della società di suo cognato, Fontana non farebbe prima a chiederlo a sua moglie?». Tra il serio e il faceto – a fronte della curiosa richiesta che a metà maggio gli proveniva dallo staff del presidente della Regione Lombardia tramite una persona mandatagli dal segretario generale Antonello Turturiello e dal vicesegretario Pier Attilio Superti – è così che Filippo Bongiovanni, direttore generale della centrale acquisti regionale «Aria spa», avrebbe risposto in prima battuta. Salvo poi chiedere comunque al direttore amministrativo se gli desse questo benedetto Iban della «Dama spa» di Andrea Dini (fratello della moglie di Fontana, detentrice del 10%), cioè della società che il 16 aprile aveva avuto da «Aria spa» l’affidamento diretto di una fornitura di 75.000 camici e 7.000 set sanitari per 513.000 euro. E una volta ottenuto l’Iban, Bongiovanni lo inoltrò via mail alla medesima catena regionale che gli aveva veicolato la richiesta dello staff di Fontana.
Iban per fare cosa? Qui – sempre stando alle rispettive prospettazioni – bisogna ritornare alle fibrillazioni di metà maggio in Regione per le voci interne (già dal 12 maggio, ancor prima della generica intervista di «Report» il 15 maggio sulle commesse regionali in epoca Covid) sul rischio reputazionale insito nell’affidamento diretto il 16 aprile di una commessa della Regione a una società del cognato del presidente della Regione. Per sminare la situazione, oltre un mese dopo, il 20 maggio Dini rinunciò ai pagamenti dei 49.000 camici e 7.000 set sino allora già consegnati, in una mail ad «Aria spa»: «Come anticipato per le vie brevi, la presente per comunicare che abbiamo deciso di trasformare il contratto di fornitura in donazione».
Ma più che una iniziativa spontanea, questa di Dini fu «spintanea»: nel senso che tre giorni prima, il 17 maggio, Fontana (benché poi il 7 giugno all’esplodere del caso dichiari «Non sapevo nulla della procedura», in ciò smentito dal fatto che invece sin dall’inizio sia stato il suo assessore Raffaele Cattaneo a informarlo) pregò il cognato, in un colloquio a voce di cui però esisterebbe un indiretto riferimento scritto, che non si facesse pagare le proprie fatture dalla Regione, in modo da disinnescare sul nascere quelle che Fontana paventava come possibili interpretazioni malevoli del nesso tra parentela e commessa. Da qui in poi, però, non è chiaro in che termini e ad opera di chi sia stato introdotta, in quel fine settimana di conciliaboli familiari, la questione del guadagno che Dini avrebbe perso e dei costi di riconversione aziendale che aveva già sopportato. Fontana, infatti, anche qui diversamente da quanto affermerà poi il 7 giugno («Non sono mai intervenuto in alcun modo»), nel colloquio non avrebbe esplicitato a Dini la disponibilità a ristorarlo con soldi propri: poi però di propria iniziativa, e paradossalmente ad asserita insaputa del cognato, il 19 maggio (giorno precedente alla rinuncia di Dini ai pagamenti regionali) si mosse per fargli avere 250.000 euro. Un bonifico che la milanese «Unione Fiduciaria» bloccò perché la somma, l’assenza di una coerente causale, le parti correlate, la qualifica «pep» del cliente (persona esposta politicamente), e la provvista da un conto svizzero dove nel 2015 Fontana dopo la morte della madre aveva «scudato» 5,3 milioni detenuti dal 2005 da «trust» alle Bahamas, erano tutti indici fatti apposta per far «suonare» i protocolli antiriciclaggio della fiduciaria e indurla a inviare una «Sos-segnalazione di operazione sospetta» a Banca d’Italia. Quella che – spiega il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli – mette in moto i pm Furno-Scalas-Filippini.
Sul piano giudiziario l’ipotesi di «frode in pubbliche forniture» muove dall’innegabile emergenza Covid addotta dalla Regione per giustificare l’affidamento di una commessa a «Dama spa» benché la società non avesse firmato il «Patto di integrità» anti-conflitti di interesse. Ma proprio a motivo dell’emergenza, quando Dini il 20 maggio tramutò in donazione la fornitura di 75.000 camici, la Regione – che sulla fornitura negoziata il 16 aprile contava in un periodo nel quale aveva bisogno di almeno 50.000 camici al giorno – non avrebbe dovuto consentire che Dini si sottraesse all’impegno contrattuale di fornire comunque (in dono o in vendita) anche i 25.000 camici residui dopo i due terzi già consegnati. Nell’ottica della contestazione, dunque, proprio perché la Lombardia era in emergenza, tollerare la non consegna di tutti i camici pattuiti avrebbe danneggiato la regione.