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 2020  luglio 26 Domenica calendario

La parabola dei Maccaferri

Un nome di primo piano della Bologna industriale e finanziaria, Gaetano Maccaferri, è indagato dalla procura per bancarotta. I magistrati hanno anche deciso il sequestro di beni della famiglia per oltre 57 milioni.
Quella dei Maccaferri è una delle dinastie imprenditoriali più antiche della città: fino al 2017 il gruppo fatturava oltre un miliardo di euro e proprio l’attuale presidente Gaetano, che tutti in azienda chiamano «l’architetto», è cavaliere del lavoro ed è stato presidente degli industriali emiliani, oltre che vicepresidente di Confindustria nazionale.
La procura di Bologna, che già aveva chiesto in febbraio il fallimento della holding Seci che controlla tutto il gruppo, ha ottenuto adesso il sequestro del capitale di una società satellite, la Sei, nell’ambito di un’indagine per bancarotta per distrazione che vede coinvolte otto persone, tra cui i quattro fratelli Maccaferri (oltre a Gaetano Alessandro, Antonio e Massimo), le cugine e un manager. Viene congelata quindi anche la proprietà di immobili come le sedi, le fabbriche e una villa di famiglia. Nel mirino della procura c’è una scissione del 2017 con cui Seci ha passato varie partecipazioni e immobili alla neo-costituita Sei, estranea al gruppo ma controllata dai Maccaferri, con un’operazione che secondo gli inquirenti ha portato «al consapevole depauperamento dei creditori», visto che l’azienda aveva difficoltà economiche fin dal 2014. «I fratelli – ribatte invece l’avvocato dei Maccaferri – sono a completa disposizione dei pm per chiarire la piena legittimità dell’operazione e l’assoluta correttezza del proprio operato».
Ma sono rassicurazioni che non bastano a lavoratori e sindacati, che venerdì sciopereranno e andranno a manifestare in centro a Bologna, allarmati anche dal fatto che recentemente il tribunale ha respinto, chiedendo delle modifiche, il piano di rilancio proposto dall’azienda assieme a una cordata di fondi capitanati da Carlyle. «Normale dialogo col tribunale», rassicurano dal gruppo.
Si tratta (per ora) solo dell’ultimo atto di una vicenda che si trascina dal maggio 2019. Il gruppo Maccaferri, un colosso con 55 stabilimenti in giro per il mondo e attivo nell’agricoltura, nelle costruzioni, nell’energia e nella meccanica, ha infatti accumulato 750 milioni di debiti per una serie di investimenti finiti male all’estero, cui si sono aggiunte le conversioni degli ex zuccherifici e alcuni edifici rimasti in pancia per la crisi immobiliare. Per questo l’anno scorso ha chiesto il concordato per varie società e ne ha vendute alcune, tentando di salvare almeno Officine Maccaferri, l’azienda nata nel 1879 che coi suoi “gabbioni” di contenimento ha segnato l’inizio di tutta la fortuna industriale della famiglia, e Samp, attiva nella meccanica. L’accordo annunciato a marzo coi fondi prevede finanza d’urgenza per rimettere in sesto le due aziende gioiello e la progressiva uscita dei Maccaferri dal gruppo di famiglia a favore dei nuovi investitori. Un piano che ora, sia per l’indagine che per le osservazioni del tribunale, appare traballante.
Ma la vicenda segna in un modo o nell’altro una svolta, forse addirittura la fine, di un impero industriale nato a metà Ottocento nella bottega di un fabbro, Raffaele Maccaferri, che fonderà le Officine e darà il via così a una dinastia che nel corso dei decenni si è allargata all’edilizia, ai prodotti per la sanità, all’energia, ai profilattici Hatù, alle macchine agricole e di precisione, all’agricoltura. Un impero che ora rischia di franare. Che questo sia avvenuto per sfortuna, imperizia o con dolo dei Maccaferri, sarà il tribunale a deciderlo.