Corriere della Sera, 25 luglio 2020
Mutare classici in numeri uccide l’insegnamento
Tra le tante incertezze che pesano sul futuro dell’università c’è un’irremovibile certezza: l’appuntamento annuale che tutti i professori hanno con la cosiddetta «Scheda di Insegnamento». Oltre a essere un’offesa all’intelligenza dei docenti, è anche una mortificazione dell’autentica funzione dell’insegnamento. Si tratta di rispondere ad alcune domande standard (obiettivi formativi, criteri di valutazione dell’apprendimento, metodologie didattiche) che riguardano il programma e le finalità del corso. Un ulteriore contributo alla superfetazione delle scartoffie e della burocrazia che da anni ormai minaccia il futuro degli atenei. Ma c’è di più: emerge anche l’ambizione di misurare ciò che non è misurabile! Una delle voci, infatti, riguarda la «Stima del carico di lavoro per lo studente». Nella fervida fantasia di una direttiva ministeriale del 3.11.1999 (n. 509, art. 5) a ogni «credito formativo universitario (…) corrispondono 25 ore di lavoro per studente». L’allievo, insomma, che frequenta un corso di 9 crediti (perché ricorrere a un lessico legato a finanza e mercati?) dovrà studiare a casa (il calcolo può variare di poco tra gli atenei) non più di 162 ore (25x9=225; 162 deriva dalle 225 ore meno le 63 del corso frontale). Come farà un povero professore a individuare un classico che possa soddisfare queste condizioni? Sarà possibile leggere (e capire) l’Odissea, il Decameron o il Don Chisciotte in 162 ore? Un’altra dimostrazione di come strumenti creati per migliorare (in questo caso la didattica) finiscano, poi, per condannare a morte ciò che vorrebbero salvare. Tradurre tutto in cifre, trasformando i professori in ragionieri, non migliora la qualità (si pensi alle pubblicazioni valutate quantitativamente e non per il loro valore). Che fare, allora? Non abbiamo scelta: scriviamo 162 ore ma – per difendere studenti e dignità – non rinunciamo, per carità, a far leggere i grandi classici...