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 2020  luglio 25 Sabato calendario

Le riforme da fare solo a parole

«L’Italia attende da troppo tempo le riforme istituzionali e da troppo tempo ne sente parlare: è giunto il momento di farle». Parole del capo dello Stato Scalfaro alla vigilia di Natale del 1996. «Se quasi tutti ammettono che l’Italia è ancora in mezzo al guado», aggiunse l’allora presidente del Senato Mancino, «Allora smettiamola di prenderci in giro sparando contro i governissimi e le tregue e diciamo che l’Italia ha bisogno di una grande stagione di riforme, di una vera e propria Assemblea Costituente». È passato, da allora, un quarto di secolo.
E quaranta sono gli anni trascorsi da quando l’appello a una «stagione di riforme» per «uscire dalla crisi che ci attanaglia» venne lanciato da Bettino Craxi, Claudio Martelli, Giovanni Spadolini e altri ancora. Leggere ora la forzista Mariastella Gelmini invocare «l’avvio d’una stagione di riforme decise e coraggiose da troppo tempo rinviate» parallelamente ai piddini Alessandro Alfieri e Andrea Romano («i risultati raggiunti da Conte nella trattativa europea sono la base per l’apertura di una storica stagione di riforme») consola ma insieme fa tornare a galla i soliti dubbi: non sarà la solita formula ripetuta inutilmente finora a pappagallo, un po’ da tutti a destra e a sinistra, oltre un migliaio di volte?
La stessa idea avanzata in queste ore di dar vita a una commissione bicamerale per decidere come e dove spendere i soldi che arriveranno dall’Unione europea non suona rassicurante all’orecchio di chi in questi decenni, di commissioni varie interministeriali, parlamentari, regionali o altro ancora, ne ha viste a sazietà. Troppe. E troppo spesso inventate a tavolino con propositi un po’ così… Da quella di vigilanza sull’anagrafe tributaria (sei riunioni nell’arco di un’intera legislatura) a quella d’inchiesta sull’arricchimento di Silvio Berlusconi («Da dove provengono i suoi soldi? Come ha costruito il suo impero televisivo? Come utilizza la politica per difendere gli affari personali? Questa inchiesta va fatta per il bene della democrazia») proposta da Umberto Bossi il 13 agosto ‘99, poche settimane prima di firmare con Sua Emittenza un patto di ferro per le Politiche del 2001.
Per non dire delle Bicamerali per le riforme istituzionali. Tre Bicamerali, tre fallimenti. Prima quella del 1983/85 guidata da Aldo Bozzi e conclusa con una relazione (senza effetti pratici) votata dalla maggioranza di centro-sinistra, lasciata passare dall’astensione del Pci e accompagnata da sei (sei!) relazioni di minoranza. Poi la Bicamerale del 1993, dopo dure esternazioni di Francesco Cossiga sulla necessità di cambiare dei punti della Carta costituzionale, presieduta prima da Ciriaco De Mita e poi da Nilde Iotti ma presto accantonata a causa della crisi segnata da Tangentopoli e dal tracollo di vari partiti che avrebbe portato al trionfo elettorale di Silvio Berlusconi.
E così andò a finire anche la terza Bicamerale. Ricordate? Era 1997. Pareva, all’inizio, che D’Alema e Berlusconi dopo una miriade di reciproci attacchi («Massimo e Silvio in realtà si piacciono, solo che le famiglie non vogliono», rideva Emilio Fede) potessero raggiungere un ragionevole compromesso. Di qua il primo diceva che «il treno delle riforme è partito» e dava alle stampe per la berlusconiana Mondadori il libro La grande riforma. Di là il Cavaliere, riconosciuta allo storico avversario la guida della commissione, si spingeva a dire: «Quando entro lì (in Bicamerale) sento una vocina che mi chiama papà. Mi sento veramente un padre costituente». Alla fine dei lavori concesse: «Do volentieri atto al presidente di aver mantenuto sul punto cruciale del presidenzialismo un atteggiamento di garanzia e imparzialità assolutamente encomiabile».
Come andò a finire si sa. In una successiva battaglia parlamentare durissima e senza esclusione di colpi. Con la riforma bombardata un po’ da tutte le parti. Da Mario Segni («È un presidenzialismo salamonico: una fetta a te, una a me») a Giovanni Sartori («È un patto tra ladri di polli: una pappa alla bulgara»), da Filippo Mancuso («È una riforma figlia del mulo») a Giuliano Urbani: «È uno zombie, con l’arrivo del caldo puzzerà pure». Insomma, i fatti diedero ragione a Francesco Cossiga che, alla presentazione aveva ridacchiato: «Questa Bicamerale mi sembra una macchina bella, comoda, spaziosa, dove ognuno può trovar posto. Ma che non può camminare perché ha le ruote quadrate». «Vorrà dire che metteremo un motore più potente...», aveva ribattuto Fabio Mussi. Errore.
E tanti anni dopo sempre lì stiamo. Dio sa quanto l’Italia avrebbe bisogno d’una grande stagione di riforme. Che affronti finalmente, oltre a quello istituzionale, alcuni nodi irrisolti da decenni. Quello della burocrazia, che si è arrotolata su se stessa per aumentare il proprio potere fino al punto di non riuscire più, neppure nei casi di buona volontà, a trovare l’ingresso e l’uscita dal labirinto. Quello della scuola, dove studenti e professori delusi e demotivati sono costretti a vivere in istituti vecchi e a volte perfino inagibili e dove appare un’emergenza insormontabile, ormai, anche il recupero dei banchi. Quello della giustizia incapace di stare al passo, per quanti sforzi faccia, di una società e un sistema economico che non possono permettersi di essere frenati da bibliche lentezze. E poi ancora quello del patrimonio paesaggistico, artistico e monumentale troppo spesso sbandierato come un vanto mondiale ma altrettanto spesso abbandonato all’incuria. Quello del federalismo, che tra spinte e controspinte fa un passo avanti e uno indietro. Per non dire dell’università, della ricerca, dei trasporti, del degrado del territorio, della selezione della classe dirigente non solo politica ma professionale e anche, a dirla tutta, morale.
Lo sappiamo: trovare una quadra per avviare finalmente riforme vere, condivise, indispensabili senza accartocciarci sul continuo tamponamento delle emergenze successive non è facile. Anzi, diamo per scontato che l’odio fra tante parti della nostra società sia così diffuso e calloso da complicare ulteriormente tutto. Almeno provarci, però, almeno ora, almeno dopo quello che è successo, è un dovere. Purché chi deve far ripartire la macchina, al governo o all’opposizione che sia, la smetta di portarsi dietro la propria ruota quadrata...