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 2020  luglio 25 Sabato calendario

Biografia di Salvatore Veca raccontata da lui stesso

Non ama la filosofia mediatica, quell’arte che albergava già nei discorsi dei sofisti e che Platone condannò con sommo disprezzo. Per questo, nel momento in cui la filosofia è diventata una sorta di prêt-à-porter dell’anima, ha pensato bene di fare un passo indietro. Ha continuato a scrivere libri, frenando su tutto il resto. Poche interviste, poche apparizioni, poca militanza. A 77 anni Salvatore Veca non avverte il peso della solitudine. Anzi.

Un lieve ottimismo pervade la sua vita di pensatore, al punto che si è guardato retrospettivamente, con l’aiuto di Sebastiano Mondadori, consegnando di sé una "prova di autoritratto" (il saggio è edito da Mimesis). La parola "prova" non allude tanto alla prova d’artista; quanto all’incertezza che nasce attorno alla domanda: sarò davvero io quello che si è raccontato? Sarò stato sufficientemente convincente, cioè argomentativo, per fornire al lettore tutti gli elementi della mia vita?
Con Veca non mi sento da alcuni anni. A lui devo la lettura di quel saggio ostico e pedante ma al tempo stesso profondo e indispensabile che è Una teoria della giustizia di John Rawls, un liberal americano profondamente innamorato delle ragioni che sono alla base dell’eguaglianza. Quel libro attraversò il dibattito filosofico politico dell’Italia degli anni Ottanta.
Che cosa resta di quel periodo?
«Temo ben poco. Ho vissuto anni intensi, divisi tra la passione per la politica e la ricerca filosofica. Qualche anno prima, nel 1977, avevo pubblicato un libro in cui tentavo di dimostrare che Marx era stato un pensatore della questione sociale, ma del tutto inadeguato per affrontare i problemi del ventesimo secolo. Circolava, soprattutto tra gli intellettuali del Pci, la convinzione che si dovesse aderire a qualche forma di marxismo per dichiararsi comunisti. A me sembrava una causa persa. Fu allora che cominciai a guardarmi intorno e per puro caso mi imbattei nella figura di John Rawls e del suo capolavoro filosofico: Una teoria della giustizia, quattrocento pagine su cui mi chinai con una fatica terribile».
Rawls era un liberal, che ricordo ne conservi?
«Di un uomo coerente e riservato. Nonostante la notorietà non amava apparire. Quando Clinton lo invitò alla Casa Bianca mandò la moglie. Non so se fosse timidezza. Ricordo un signore molto alto che nelle discussioni parlava lentamente. Non sfuggiva a nessuna obiezione. Un pomeriggio, alla fine di un convegno, uscì dall’aula con le sole calze ai piedi. Era talmente distratto e in quel caso felice per come si era svolta la discussione, che non si era accorto di aver dimenticato le scarpe sotto il tavolo. Quello di Rawls fu un pensiero originalissimo di cui mi servii quando scrissi e pubblicai nel 1982 La società giusta. Un libro che fece esplodere un casino infernale nella sinistra italiana».
Cosa conteneva di così scandaloso?
«Dicevo cose abbastanza ovvie, ma non per il Pci. La mia tesi era che la sinistra dovesse guadagnarsi il consenso in una società aperta in cui l’eguaglianza non è appiattimento ma equità, che poi vuol dire capacità di correggere le condizioni di partenza di chi sta peggio. Facendo perno sui principi di giustizia vedevo una prospettiva in cui la cooperazione sociale non era incompatibile con il conflitto. Il sottinteso era: puoi lottare per una società migliore non per una società perfetta. Il libro fu discusso al Gramsci di Bologna, c’erano tra gli altri Ingrao e Tortorella. Fui in pratica processato».
Eri iscritto al Pci?
«Mi ero iscritto nella convinzione che quel partito potesse modificare la propria natura. Qualche anno dopo ci furono la caduta del muro, e la rapida implosione del mondo sovietico. Tra i due eventi, era il giugno del 1989, si infilò la protesta di piazza Tienanmen che sfociò nella repressione attuata dall’esercito cinese. All’epoca ero presidente della Fondazione Feltrinelli. Venne da me Michele Salvati: dobbiamo far cambiare il nome al Pci, disse. Scrivemmo una lettera e la spedimmo a Franco Ottolenghi, direttore di Rinascita».
Come la accolse?
«All’inizio con imbarazzo. Ma oltre a essere comunista, Franco era uno studioso del Talmud. Alla fine se ne uscì con la frase del grande Rabbi Hillel: "Se non ora quando?". La lettera fu accompagnata da un corsivo di Fabio Mussi in cui si diceva che quella espressa era l’opinione di due intellettuali illuministi! Stava crollando il mondo ma era come se non se ne fossero accorti!».
Beh, il Pci cambiò il nome.
«È vero, ma non cambiò la sua natura. Fu l’errore tanto di Norberto Bobbio, con cui ogni anno facevamo un seminario, che di Salvati e mio. Pensavamo che il Pci fosse un partito socialdemocratico. Non lo era. In quel periodo maturai la convinzione che gli intellettuali non avessero più nessun peso specifico. Preferii sparire dalla visibilità mediatica e dedicarmi alla ricerca universitaria: Cambridge, Arcavacata in Calabria, Bologna, Milano, Pavia».
Da che famiglia provieni?
«Media borghesia: mia madre diplomata in pianoforte al conservatorio; mio padre fece fortuna con i ricambi di automobile. Sono nato nel 1943, mio padre seppe della nascita, nel campo di prigionia in Polonia. La prima volta che mi vide avevo due anni. Tornò avventurosamente dopo una fuga. Ho avuto in sorte una buona famiglia, arricchita da un fratello, Alberto, di tre anni più giovane. Alle elementari cominciai ad appassionarmi ai miti greci. Il liceo al Carducci e poi al Parini. Le prime letture impegnative. Mio nonno mi regalò un’edizione in tre volumi dei Dialoghi di Platone. Mi piacevano i fumetti e il cinema. Alimentarono le mie fantasie. Infine arrivò l’università».
Chi furono i tuoi maestri?
«Il primo esame che diedi fu su Freud con Cesare Musatti. Ma in realtà devo a Enzo Paci l’innamoramento per la filosofia. E poi ci fu Ludovico Geymonat: nell’Italia del dopoguerra introdusse autorevolmente il dibattito sulle scienze. Il rapporto tra scienza e filosofia ha caratterizzato la prima parte del mio lavoro».
Il Sessantotto come lo hai vissuto?
«Coinvolgimento iniziale e poi progressivo distacco. Fu importante sul piano del costume. Mi sposai giovane per poi separarmi che lo ero ancora. Tornai libero. Impegnandomi su tre fronti: le fidanzate, lo studio, gli amici. Tra i più importanti in quel periodo c’era Pier Aldo Rovatti. Ci consideravamo entrambi allievi di Paci scrivevamo sulla sua rivista Aut Aut. Pier Aldo ha continuato a farla negli anni, con grandi meriti, io quasi subito me ne staccai».
Perché?
«Non mi convinceva il programma fenomenologico di Paci che voleva tenere insieme Marx e Husserl. Ma soprattutto mi infastidì l’eccessiva apertura della rivista ai movimenti extraparlamentari. Nel 1972 mollai. Nella convinzione che la filosofia dovesse rivendicare un proprio ruolo autonomo. Sempre in quegli anni frequentavo alcuni rami della famiglia Mondadori. Alla Statale avevo conosciuto Riccardo, figlio di Bruno e poi Fabrizio il primogenito di Alberto Mondadori. Poi venne Marco Mondadori, la cui amicizia fu per me fondamentale sul piano delle idee e su quello privato. Attraverso Marco conobbi la sorella Nicoletta, con cui ancora condivido una straordinaria storia».
Alberto Mondadori aveva dato vita al Saggiatore.
«Fu una grande esperienza editoriale alla quale collaborai sia pubblicando (lì uscì il mio primo libro) sia suggerendo alcuni nomi e tendenze. Poi all’inizio degli anni Settanta cominciò il mio rapporto con Feltrinelli, con la casa editrice e con la Fondazione».
La casa editrice non se la passava bene.
«Dopo le sbornie ideologiche dei primi anni Settanta entrò in crisi. Giangiacomo Feltrinelli era morto in maniera tragica. Si scoprirono debiti miliardari con le banche. Alla fine fu Inge Feltrinelli a ripianarli in gran parte con soldi propri. È stata una donna straordinaria.
Lei e il suo compagno Tomás Maldonado hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia vita. Una vera amicizia che oggi mi manca».
A proposito di amicizie puoi vantare quella con due presidenti della Repubblica.
«Con Giorgio Napolitano continua ancora oggi. Con Francesco Cossiga il rapporto fu diverso. Lo conobbi in occasione di un libro della Feltrinelli che portammo al Quirinale. Era la Storia dell’Italia moderna di Giorgio Candeloro. Dopo qualche mese Cossiga volle incontrarmi. Aveva l’abitudine di convocare gli ospiti alle 8 del mattino. Con qualche fatica, non amo alzarmi presto, andai a trovarlo e facemmo colazione assieme».
Di cosa parlaste?
«Era incuriosito dalle mie posizioni politiche. Passò immediatamente al tu. Mi disse che se fossi nato una generazione prima certe aperture nel Pci non avrei potuto permettermele. Ci frequentammo per qualche tempo, a me capitava in quel periodo di essere spesso a Roma».
Che impressione ti fece?
«Non era il classico democristiano. Ma un uomo sofferente e imprevedibile. La morte di Moro accentuò il suo lato tragico. Era ossessionato dalla visione di un Paese disossato, privo di spina dorsale e perciò incapace di darsi un futuro all’altezza delle sfide moderne. Il malumore e una certa frustrazione inghiottirono i suoi sogni presidenzialisti. No, non credo che ebbe una serena vecchiaia».
La tua come la vivi?
«Ricordo che quando lessi il De senectute di Bobbio pensai che stesse mostrando il lato peggiore dell’esser vecchi. Oltre che un maestro della politica, Bobbio fu un amico e trovai terribile quella confessione di impotenza e di autoflagellazione. Come se, nel rendiconto finale, egli vedesse solo gli errori commessi. Ecco, non vorrei che la mia vecchiaia fosse segnata da un simile pessimismo. Non lo sopporterei. Le stagioni della vita ci mettono davanti a compiti diversi. L’importante è cercare di non condannarsi alla solitudine. La vecchiaia non è priva di scopi. I miei anni finali li penso come Walter Benjamin pensava le piccole porte ebraiche da cui poteva improvvisamente uscire il messia».
Sorprende questa tua citazione.
«Perché mai? L’intelligenza filosofica non è proprietà di nessuno e si posa dove magari meno te l’aspetti».
Sei stato un accanito sostenitore della filosofia analitica.
«Oggi ti posso tranquillamente dire che non è più una questione tra analitici e continentali. Certo, non mi appassiono alla filosofia vaga, da bar dello sport, che sento nelle piazze o in tv. Ma la filosofia non può, d’altro canto, ridursi al rigore del metodo. Me ne sono reso conto quando ho capito che giravo a vuoto».
Come ci sei arrivato?
«Mi è stato di aiuto un filosofo che stimo: Thomas Nagel. Lui ha applicato il metodo analitico alla filosofia continentale, alle grandi questioni – come l’eros, la morte, l’assurdo, la frammentazione dei valori, il corpo che erano state poste da pensatori come Nietzsche, Sartre, Merleau-Ponty, Heidegger. Ma anche Bernard Williams non arretrò mai davanti ai grandi problemi dell’etica e della dissimulazione e per questo non ha senso ridurlo a filosofo analitico. C’è poi un’altra storia che mi ha dato da pensare. Il caso di Richard Rorty.
Scambiarono le sue aperture al postmoderno e alla filosofia continentale per confusione. Fu messo in disparte, cacciato dal dipartimento di filosofia e confinato in quello di letteratura».
La filosofia divenne una questione di potere accademico.
«Per me era solo un sopruso. Rorty, semplicemente, non meritava quel trattamento».
Hai evocato il nome di Heidegger che impressione ti produce oggi?
«Conosco solo Essere e Tempo che considero uno dei pochi grandi libri del Novecento. Tutto quello che ha scritto successivamente non mi è mai piaciuto. Ha troppo mitologizzato la filosofia che ai suoi occhi doveva essere poetante. Sicché peggiorò il suo linguaggio, rendendolo oracolare. Però che ti devo dire? Sarà stato anche politicamente un figlio di puttana, ma resta uno degli ultimi grandi filosofi con cui vale ancora la pena misurarsi».
La vecchiaia porta a volte doni sorprendenti.
«L’importante è che non siano doni avvelenati».