Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  luglio 25 Sabato calendario

Intervista a Peter Bogdanovich



Peter Bogdanovich ha atteso quasi cinquanta anni prima di riuscire a completare The Other Side of the Wind, il film incompiuto di Orson Welles, nel quale interpretava un ruolo come attore. Sono numerosi i motivi che l’hanno convinto a questo azzardo, a cominciare dall’amicizia filiale che lo legava a Welles. Ma forse la ragione principale è legata a un’immagine che lo ha tormentato per tutti questi anni: il film termina con un drive-in semideserto che continua a proiettare un film per tutta la notte. Con l’arrivo dell’alba i primi raggi di sole fanno scomparire le immagini proiettate sullo schermo: la luce reale conquista il palcoscenico e annulla quella artificiale del cinema. «Io leggo questa scena come la vittoria della realtà sulla finzione» racconta dal suo studio di Los Angeles. «E ciò è particolarmente struggente se si pensa che si tratta di un concetto affermato con immagini semplici e potentissime da uno dei più grandi registi di tutti i tempi. Ma c’è qualcos’altro che mi sembra particolarmente attuale, e che non sono riuscito a levarmi dalla testa durante il lockdown: la sequenza è realistica ma ha un’atmosfera post-apocalittica: ogni cosa, ogni realtà, ogni convinzione, ogni sogno viene messo in discussione».

Welles mostrava la fragilità del cinema dandogli l’addio, tu hai voluto completare il film anche per dimostrare che il cinema aveva un futuro: la pensi ancora così dopo la pandemia?
«Ci sono due elementi su cui bisogna riflettere: il primo è l’impatto catastrofico che il Covid ha avuto sul pubblico. La chiusura forzata dei cinema per molti mesi, oltre a un evidente danno economico, ha generato una disaffezione da parte degli spettatori: sarà estremamente difficile riconquistarli. Ma da uomo di cinema io sono più interessato a un secondo elemento, artistico: quello che abbiamo vissuto tutti ha superato per molti versi la fantascienza, e mette in discussione ogni eventuale nuova narrativa. Non sarà più possibile raccontare come si faceva fino a pochi mesi fa: non mi riferisco solo al fatto che nei primi film che hanno ripreso la produzione sono stati minimizzati i contatti fisici e perfino nelle scene intime è affidato tutto al dialogo, e a ciò che si vorrebbe poter fare. Quello che in realtà è interessante è vedere come gli esseri umani raccontano e, soprattutto, sono raccontati, alla luce della scoperta di una fragilità impensabile. Quanto tempo ci vorrà prima che ci si riunisca in uno stadio per vedere lo sport o un concerto? Siamo veramente sicuri che questo avverrà senza norme o timori che cambieranno di fatto lo spirito con cui si stava insieme? E questo come cambierà lo spettacolo al quale assistiamo?».
Ritieni quindi che per i narratori e i registi sarà inevitabile rifugiarsi nel passato?
«Non penso che sia inevitabile, ma sarà certamente la scelta più facile. Dopo grandi sconvolgimenti epocali, come ad esempio la Seconda guerra mondiale, l’arte, e in particolare il cinema, ha raccontato parallelamente il dolore e la rinascita, e per brevi periodi sembrava che si potesse narrare soltanto quel tipo di storie: penso ad esempio al neorealismo italiano, che ci ha regalato numerosi capolavori. Ma poi tutto passa, e si ricomincia a vivere e ad esprimersi secondo i codici più normali, per non dire convenzionali. Nel cinema ricominciano quindi le commedie e i film di genere, e anche in questo caso vengono prodotti capolavori, ma la domanda che è necessario farsi è quanto debbano all’esperienza tragica della guerra quelle commedie e quei film di genere. Questa generazione ha vissuto e sta ancora vivendo un trauma impensabile: ancora non ha sviluppato gli anticorpi, né ha elaborato artisticamente qualcosa che nasca da questa esperienza, per lasciare il campo, dopo un inevitabile arco temporale, a qualcosa direttamente o indirettamente legata a questa prima reazione. Io non credo che questa tragedia – perché in primo luogo di tragedia si tratta – segni la fine di un percorso artistico, ma semmai una cesura, una svolta imprescindibile.
Del resto anche noi dividiamo la storia, l’arte, e perfino le costruzioni architettoniche, in prima e dopo guerra: tra qualche anno ci sarà un prima e dopo Covid, senza per questo celebrare funerali. Un libro di successo di qualche decennio fa parlava della Fine della storia: un titolo riuscito e abilissimo, ma di fatto menzognero».
Tu stesso però hai parlato di disaffezione o disabitudine del pubblico: ciò potrà presentare un colpo durissimo per il cinema, che è anche industria, e con ogni probabilità influenzerà anche l’espressione artistica dei futuri registi.
«Il cinema per come l’ho conosciuto e amato io, e prima di me Orson Welles e John Ford – solo per fare i nomi di due giganti – non tornerà mai più, ma questo è un fenomeno precedente alla pandemia. L’industria ha cercato con ogni mezzo di attirare gli spettatori lavorando sulla spettacolarizzazione, sui formati dei film, sul 3D e persino sulla comodità dei teatri che sono diventati estremamente diversi rispetto a quei luoghi bui e fumosi che ricordo in gioventù. Per mantenere gli stessi incassi ha aumentato i prezzi, offrendo poltrone reclinabili e cibo più raffinato del semplice popcorn, ma la realtà è che le nuove generazioni vedono i film quando va bene sul computer, altrimenti sull’iPad o addirittura sull’iPhone. Non ci vuole uno storico del cinema per capire che un film come ad esempio Lawrence d’Arabia sia inguardabile su uno schermo di pochi centimetri: il cinema è la condivisione di uno spettacolo proiettato su uno schermo luminoso, molto più grande degli spettatori. La condivisione è amplificata dal fatto che il pubblico è composto da spettatori, e questo dato accentua l’elemento di formazione, qualunque sia la reazione di fronte a un film. Io ricorderò per esempio per tutta la vita il primo film che ho visto e la reazione di pianto sconsolato e terrorizzato: un’esperienza che mi ha cambiato, e il film in questione era Dumbo ».
Todd Haynes nel suo film "Safe" ha parlato con grande anticipo della pandemia.
«L’arte, non solo il cinema, ha sempre virtù profetiche, ma qui la domanda che dobbiamo farci è come ci esprimeremo da adesso in poi, e come influirà sulla nostra creatività assistere a un mondo deserto e paralizzato, dove la scienza brancola nel buio e si dimostra insufficiente, dove politici responsabili sottovalutano o addirittura scherzano sulla pandemia condannando di fatto a morte molta gente. Dove falliscono uno a uno società ed esercizi commerciali, mentre la paura scatta incontrollata e si trasforma in panico. E dove, bisogna dire anche questo, ci sono anche inaspettati e meravigliosi esempi di solidarietà: insomma un momento estremo che genera reazioni estreme. La vera arte non ha paura di rischiare, e sarà ancora una volta in grado di anticipare, intuire, cambiando il nostro modo di sognare e ragionare».
A quale regista affiderebbe il compito di raccontare la pandemia e il mondo che ne scaturisce?
«Si è trattata di un’esperienza folle, e quindi solo un regista folle avrebbe potuto raccontarla: penso a Samuel Fuller, l’autore del Corridoio della paura e del Grande Uno Rosso ».