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 2020  luglio 25 Sabato calendario

Intervista a Patti Smith

Risponde da Manhattan, con il gatto che protesta in sottofondo e la voce che ogni tanto le si arrochisce perché, come le diceva l’amico sceneggiatore Sam Shepard, «hai quella maledetta tosse da 45 anni». È lì, nella sua casa del Village, che Patti Smith, 73 anni, voce e performer amatissima da tutte le generazioni dagli anni ’70 in poi, ha trascorso la quarantena e fatto alcune preziose dirette Instagram seguite da ogni parte del mondo.
Mercoledì esce in Italia L’anno della scimmia, una sorta di diario dell’anno 2016, terminato con l’elezione di Trump. Si tratta del quarto libro da quando, nel 2010, ha debuttato sul main stage della letteratura con Just Kids, bellissimo e pluripremiato racconto autobiografico dei suoi primi anni nella New York in fermento dei ’60 e dell’amore con il fotografo Robert Mapplethorpe. A quello sono seguiti M Train (2015) e Devozione (2017), lavori nei quali Smith ha affinato il proprio personalissimo stile, un equilibrio onirico ed elettrico tra immaginazione, realtà e poesia che trae ispirazione da alcuni tra i suoi scrittori amatissimi, Jean Genet, Haruki Murakami, Roberto Bolaño.
Ma come si incomincia l’intervista a uno dei proprio idoli supremi? Spiattellando tutto, subito.
Le confesso di essere molto emozionata. A lei è mai capitato di sentirsi così di fronte a una persona che ammirava molto?
«Sì, con Papa Francesco e Bob Dylan. Spesso è difficile distinguere se si è più nervosi o più emozionati. Non è tanto l’altro, ma le nostre aspettative su noi stessi, il volere essere al nostro meglio quando incontriamo le persone che ammiriamo. Magari è così anche per lei, adesso».
Lei quando ha scoperto qual era la sua vocazione?
«Da piccola, avrò avuto 10 o 11 anni, ho deciso che sarei diventata una scrittrice. Più tardi, da teenager, volevo essere un’artista. La chiamata da parte dell’arte è stata la più forte che ho avuto e quella che ho mantenuta per tutta la vita. Oggi direi che la mia vocazione personale è la scrittura, quella pubblica è essere una performer».
Le sue primissime composizioni sono state delle preghiere. Che cosa significa pregare per lei?
«Comunicare. Da bambina parlavo sempre con Dio anche senza chiedergli nulla. La preghiera, nella sua forma più semplice, è una forma di gratitudine. Per la vita, la natura, la terra, mia madre, mio padre, i miei figli. Per questo quando viaggio, soprattutto in Italia, amo suonare nelle chiese, e ogni volta che entro in una accendo una candela per i bambini di tutto il mondo, non solo i miei. Non chiedo nulla di preciso, solo la forza: per me e per le persone che soffrono».
In ogni libro, lei parla dei suoi morti. Che rapporto ha con loro?
«Sono sempre con me. A volte sento di più la presenza di mia madre, altre quella di mio marito, di Robert o di mio fratello. Parte del mio rapporto con loro è memoria, parte vera e propria comunicazione, anche attraverso i sogni».
Pensa che un giorno li rivedrà?
«La mia filosofia su come sarà dopo la morte è molto personale e in evoluzione. Credo che alcuni andranno molto lontano e si fonderanno con una coscienza collettiva, altri resteranno più legati alla terra. Io penso che continuerò la mia avventura a contatto con le persone che ho amato»
Nell’Anno della scimmia ha inserito una foto della tazza che usava suo padre. Commovente, soprattutto ripensando a quello che lui le disse quando uscì il suo primo libro: «Patricia, sei una brava scrittrice». Che cosa hanno significato quelle parole per lei?
«Più di quello che potrei dire. Mio padre non era uno che faceva i complimenti con leggerezza. Quella è stata la prima volta e avevo già 45 o 46 anni. Non l’avrebbe detto se non avesse pensato che fossi pronta, e io so di avere scritto le mie cose migliori dopo di allora».
I sogni, assieme ai morti, sono l’altro filo con cui imbastisce la sua scrittura.
«I sogni hanno sempre significato molto per me e ne ho sempre fatti moltissimi. Da giovane, uno dei motivi per cui ho sviluppato una pratica quotidiana di scrittura è stato proprio il volerli registrare. È stato un importante catalizzatore per i miei futuri lavori».
Nelle pagine in cui racconta lo shock del post elezioni, dice di avere mantenuto la speranza.
«Provo speranza perché sono viva. Fino a che respiro, fino a che ci sono dei bambini, non c’è motivo per non averla. Che vita sarebbe se ci svegliassimo senza? Credo sia il modo naturale di essere dell’umanità. Poi possono capitare cose che ci fanno scivolare, ma la speranza è come la fenice, risorge dalle ceneri e vola ancora e ancora. È la componente di una lunga vita».
Che idea si è fatta delle proteste di questi mesi?
«Alcuni momenti sono dei marcatori più importanti di altri. In America sono emersi simultaneamente due poli, la violenza e la protesta sociale, che hanno reso il clima elettrico. Non so predire ciò che accadrà, ma le cose non torneranno al punto di prima. Trump si è mostrato più nudo che mai, la sua mancanza di tatto, di empatia, di conoscenza, il suo continuo giudizio su ogni cosa: è tutto davanti al mondo».
Nel 1988, lei e suo marito Fred avete scritto «People Have the Power», una canzone che continua a essere l’inno perfetto per tempi imperfetti. Lo avreste mai immaginato?
«Abbiamo solo fatto il nostro lavoro, con la speranza che avesse un significato anche per altri. Sono stata molto fortunata perché non accade sempre. Quando mi esibisco, soprattutto in Europa, mi stupisce sempre vedere che la maggior parte di chi viene ai miei concerti ha meno di 30 anni. È un privilegio e anche un incoraggiamento: risuonare con le nuove generazioni mi fa venire voglia di fare meglio».
Come donna lei ha sempre seguito uno stile personale, sia nel vestire che nel mostrare il proprio corpo per come è. Da dove le viene tutta questa libertà?
«Negli anni ’50 e ’60 dalle donne ci si aspettava che diventassero casalinghe, parrucchiere o segretarie. Non c’erano molte opzioni. Quando andavo a scuola, ai ragazzi veniva insegnato a guidare, a noi a cucinare - anche se io non ho mai imparato. Ho rigettato tutto e sono andata per la mia strada. Stavo imparando a essere un’artista e non mi interessavano le trappole che ci rendono iper coscienti verso noi stesse. Per la mia generazione ero alta, molto magra, non mi piaceva truccarmi, non mi facevo quelle acconciature con tonnellate di lacca, preferivo le trecce. Facevo quello che mi faceva stare bene con me stessa. Era una cosa che mi veniva da dentro e che non so spiegare. Ho sempre avuto un mio senso dello stile che è rimasto sempre lo stesso. Oggi porto gli stessi vestiti. Una volta io e mia figlia abbiamo trovato in un negozio un vecchio disco degli anni ’70 con me in copertina, giacca di pelle, t-shirt. Lei mi ha guardata e ha detto: "Mamma, sei sempre la stessa persona". Cinquant’anni dopo».
La sua voce nell’«Anno della scimmia» mi ha ricordato molto quella del suo account Instagram.
«Sono contenta che lo dica. L’ho aperto proprio mentre stavo finendo di scrivere questo libro e non volevo mettere giù, ero triste di dovere abbandonare quel modo diretto e poetico di parlare al lettore. Mia figlia Paris mi ha aiutata a postare la prima fotografia, la mia mano aperta verso gli altri. Sono molto contenta di averlo fatto. Il mio è un intento puramente culturale, un modo di rispecchiare il mondo attraverso l’arte, i libri, la politica, l’ambiente. E cerco di mantenerlo un posto in cui la gente sa perché viene, ben distinto da altri dove ci sono polemiche, bullismo, fake news».
Lei è una grandissima fan dei crime televisivi – ha fatto anche un cameo in «The Killing». Qualche anno fa ha detto che stava scrivendo una detective story. Quando la leggeremo?
«Nel mio computer ho una cartellina e dentro c’è il mio detective. Appena avrò finito gli altri lavori, mi rimetterò a lavorarci su».