La Stampa, 25 luglio 2020
Biografia di Francesco Montanari raccontata da lui stesso
Francesco Montanari non ha nemmeno 24 anni quando il pubblico all’improvviso impazzisce per lui e lo tratta come una rockstar. Sono i tempi della serie di Romanzo criminale, in cui interpreta con intensità il personaggio del Libanese. Da allora passano 12 anni. I primi sono duri - nonostante il successo non arrivano altri copioni -, poi la ruota gira ed ecco una serie di ruoli significativi, tra cui quello de Il cacciatore, serie ispirata alla storia del magistrato antimafia Alfonso Sabella per cui viene premiato a Cannes, quello di Savonarola ne I Medici e quello di Alberto Torregiani in Con le mie mani, film che sta girando in queste settimane sul figlio ferito, e rimasto paralizzato, del gioielliere ucciso dai Pac di Cesare Battisti nel 1979.
Un volto, quello di Montanari, che chiama ruoli drammatici, storie reali. Non senza eccezioni però, come quella di stasera ad Avigliana (Torino), nell’ambito della rassegna "Borgate dal vivo", dove porta in scena in prima nazionale Menecmi di Plauto (alle 21, ingresso gratuito con prenotazione).
Dopo tanti ruoli drammatici, una commedia.
«Da Plauto nasce tutta la commedia universale. Senza gli equivoci scenici e gli archetipi che ha inventato la commedia all’italiana non esisterebbe. E nemmeno i cinepanettoni».
È più emozionante esibirsi davanti a un pubblico in carne e ossa di questi tempi?
«È diverso. Le persone in platea sono distanziate e quindi si sentono più sole e timide. C’è meno coinvolgimento ma non è che per questo sia peggiore, è solo differente. Tornare sul palco non mi ha dato l’effetto "tuffo al cuore" ma forse perché non ho mai smesso di lavorare, neanche in quarantena».
Ha interpretato criminali e magistrati. E ha realizzato un podcast in cui legge Otello con gli occhi di Iago. Si sente più a suo agio nel ruolo del buono o del cattivo?
«Sposo sempre completamente il personaggio senza farne un discorso etico. Mi interessa il concetto di lotta umana perché dove c’è conflitto c’è drammaturgia, e dove c’è drammaturgia c’è vita. Quando giri una scena, che tu sia Antigone o una persona che ne corteggia un’altra in un bar, devi avere la stessa temperatura per raggiungere l’obiettivo».
Favino è stato il Libanese nel film Romanzo criminale, lei nella serie. Vi siete mai detti chi è stato più bravo?
«No. La prima volta che l’ho incontrato a un certo punto mi ha detto "scusa Libano, posso?". Spero fosse un attestato di stima. Poi non ne abbiamo più parlato. Con Pierfrancesco ho un rapporto molto bello, è un po’ il mio mentore artistico. Quando può mi viene a vedere a teatro e il giorno dopo parliamo per ore al telefono. È come se in me vedesse se stesso qualche anno fa, forse perché siamo nati sotto la stessa stella».
Dopo quell’esperienza per due anni ha fatto fatica a lavorare. Come li ricorda?
«Camminavo per strada ed ero così popolare che la gente mi gettava la biancheria dalla finestra, non scherzo. Allo stesso tempo, però, il telefono non squillava mai. Ero scombussolato. Un giorno al supermercato ho incontrato un mio ex professore della Silvio D’Amico e mi ha detto: "Ma tu teatro non ne fai più ormai?". Io mi vergognavo di dirgli che non avevo nulla da fare, e che anche i soldi erano pochi. Sono tornato a teatro, era strapieno. Da allora non l’ho più abbandonato».
Pensa mai a cosa farebbe se non facesse più l’attore?
«Sì, capita. Forse l’Ncc (noleggio con conducente). Mi piace guidare e, anche se non conosco bene il lavoro, credo che potrei avere molto tempo per leggere aspettando i clienti».
I classici di teatro e letteratura sono la sua passione, insieme alla lirica. Niente rock?
«Amo la lirica e il metal, hanno molto in comune. L’anno prossimo farò la mia prima regia di un’opera, La bohème, con lo stabile di Catania e il maestro Carminati. D’altronde, il mio primo contatto con il teatro è stato quando i miei, a 9 anni, mi portarono a Palermo a vedere la Tosca. Guardare un’opera per un bambino è come entrare nel mondo di Harry Potter».
Lei e sua moglie Andrea Delogu avete raccontato la vostra storia d’amore in tv. E per festeggiare l’anniversario di matrimonio Andrea ha postato una sua foto nudo sui social. Voglia di condivisione?
«Lo so è una matta (ride, ndr). Tra le mille doti di Andrea la migliore è la leggerezza. È una caratteristica dei grandi, penso a Calvino. Io avevo un’idea malsana della riservatezza invece ho capito che c’è un modo di scherzare proficuo per la coppia. La relazione umana, come la vita, è un gioco, anche se molto serio. Io e Andrea siamo due animali che si sono incontrati e riconosciuti. Che hanno capito di essersi sempre amati. Senza pudori né pregiudizi. Spero di stare con lei non per la vita ma per l’eternità».
Ha detto di andare in analisi. È importante per un attore?
«Se vivi questo mestiere come lo vivo io sì. Per un motivo: è un lavoro innaturale perché l’essere umano per sopravvivere rimuove i suoi traumi mentre l’attore deve continuamente aprire i cassetti del suo dolore perché da lì prende la benzina. Ma se non impari a rientrare nella tua dimensione tridimensionale, il rischio è mettere in discussione di continuo il tuo mondo e uscire di senno».
Quale personaggio vorrebbe interpretare?
«Ora sto lavorando sulla mia famiglia. Con il dottor Astrov in Zio Vanja ho cercato di capire mio padre. In Il giocattolaio ho indagato il rapporto con mia moglie e in True West quello con mio fratello. Ora manca mia madre. Il palco è analisi concreta, ti mette subito in contatto con la tua pancia».