il Giornale, 24 luglio 2020
Ma che scorretto quell’Artusi
Sono passati duecento anni dalla nascita di Pellegrino Artusi ma sembrano duemila, da tanto la sua Italia è lontana dalla nostra. Lo si capisce già dal sottotitolo del ricettario che l’ha reso famoso: «Manuale pratico per le famiglie». Oggi nessun cuoco, nessun gastronomo arrischierebbe una simile definizione, in un Paese dove nascono 1,2 figli per donna, spesso fuori dal matrimonio, e dove pertanto le famiglie si vanno estinguendo e quelle poche che resistono si ritrovano di rado intorno a quello che un tempo si chiamava, per l’appunto, desco familiare. Nessun cuoco, nessun gastronomo odierno oserebbe scrivere ciò che si legge in La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. L’Artusi risulta classista: «S’intende bene che io in questo scritto parlo alle classi agiate». Sessista e anti-gender, affermando che la donna «tende naturalmente a ber poco vino e a cibarsi scarsamente di carne, preferendo i vegetali e i dolciumi». Irrispettoso nei confronti delle minoranze alimentari, di vegani, allergici, intolleranti vari: «Avvezzatevi a mangiare d’ogni cosa se non volete divenire incresciosi alla famiglia. Chi fa delle esclusioni parecchie offende gli altri e il capo di casa». Insomma c’è materia per scatenare l’indignazione dei nuovi iconoclasti: consiglio al sindaco di Forlimpopoli di vigilare sulla scultura dedicata all’illustre concittadino, sono tempi difficili per le statue dei maschi bianchi. Prevedibilmente, l’Artusi si dimostra insensibile ad ambiente e animali. Innumerevoli le ricette di cacciagione, millanta i modi per cucinare folaghe, starne, lepri, pernici, beccacce, cinghiali... Alcune sono divenute di dubbia legalità e penso agli «Uccelli arrosto» vale a dire «tordi, allodole o altri più minuti». Certamente proibite sono oggi le «cieche» ossia le anguille giovani che il gastronomo romagnolo propone «alla pisana» oppure fritte: nel 2020 farebbero rischiare una denuncia a pescivendoli e clienti. Molti ingredienti sono magari legali ma in compenso irreperibili: dove comprare le tinche vive che l’Artusi trovava al mercato di Firenze? E la vescica di maiale indispensabile per il complicatissimo cappone in vescica? E le zampe di «bestie bovine giovani» per fare la zampa burrata? In duecento anni è cambiato tutto, sono cambiate perfino le parole: «rognone» si diceva «arnione», melanzana era «petonciano»... E si è capovolto il gusto: nel 1891 il «budino di cervello di maiale» era «atto ad appagare il gusto delicato delle signore», oggi davanti a un simile manicaretto una signora chiederebbe il divorzio.