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 2020  luglio 24 Venerdì calendario

Biografia di Gianni Letta

Gianni Letta, detto Zolletta, è il presidente emerito della repubblica dei velluti. È fatto di gomma e dopobarba: “Se posso essere utile, mi attivo subito”. Non parla inglese. Sussurra in italiano e si copre la bocca quando risponde al telefonino da 29 euro. Si muove da solo. Lavora da solo. Conosce tutti. Presenta premi e libri. Poi saluta e scappa via. Divora dossier. Altri li fa scrivere. Non avendo labbra, indossa un sorriso standard che affila ogni mattina, proprio come faceva Giulio Andreotti, la divinità romanesca da cui discende. Da lui ha appreso l’arte della dissimulazione che è l’inchino esibito e il comando nascosto, il compromesso tra compari, secondo la regola aurea dei dorotei: “Perché escludere quando si può includere”, la torta è sempre grande, ce n’è per tutti. Basta non fare chiasso, intendersi sul numero degli invitati. E lanciare qualche osso a chi resta fuori dal banchetto.
Per vent’anni è stato lo schermo del Divo Giulio, addestrando epigoni come Luigi Bisignani, il più giovane piduista della Loggia, tra i flutti di governi provvisori e inflazione a due cifre. Per poi diventare – nell’anno 1987, tarda apoteosi craxiana – la cornice e il chiodo dell’altro suo benefattore, il nascente Silvio Berlusconi, con il compito di rimboccare le coperte alle sue tre tv che ancora pativano il trascurabile malanno di essere illegali. Compiendo il miracolo di fabbricare la medicina della legge Mammì, detta anche Polaroid, perché fotografava l’esistente voltando il misfatto in status quo: tre reti Rai ai Palazzi romani, tre a quelli nascenti di Cologno Monzese, con dotazione adeguata di spot a moltiplicare i miliardi e il potere. Per poi offrire lauta riconoscenza ai benefattori, dagli stand ben pagati nelle feste dell’intero arco costituzionale, agli spiccioli di un lavoro con riflettori e gloria per figli, mogli, amanti, giornalisti di area e di mondo.
Le finte domande in tv e il “Postal Market” dei politici
Strategia perfezionata con il varo dei telegiornali targati Caf, Craxi-Forlani-Andreotti, come ammise il sereno Confalonieri, scartavetrati dallo stesso Letta, titolare dell’indimenticata “Italia domanda” che sembrava una tribuna politica, ma era un Postal Market, dove ogni partito, da Almirante a Pannella, esibiva il proprio catalogo di buone intenzioni: mai una domanda scomoda, mai una rivelazione. Una sola volta pescato con l’omaggio di 70 milioni di lire, a nome Fininvest, per i socialdemocratici di Antonio Cariglia, più o meno gli ultimi della fila, peccato ammesso con infinita cortesia a Di Pietro, nel bel mezzo di Tangentopoli. E poi sparito per prescrizione. Ma che segnò un mutamento d’indole nel Nostro che fino ad allora, soprannominato “il signor Tavola rotonda”, si affacciava in tv e nei simposi a ogni ora del giorno e della notte, comprese le rubriche di Medicina dentale e i convegni sull’alta sartoria, convincendolo a eclissarsi.
Indossò da allora i panni ammiratissimi dell’invisibile esploratore dei corridoi romani, l’ombra buona di Silvio – essendo di Previti e Dell’Utri quella cattiva – che vegliava con il cardinal Ruini sui broccati d’oltre Tevere in qualità di Gentiluomo pontificio, e sulle condiscendenze del Quirinale, amico prima di Cossiga, che lo definì “eminenza azzurrina”, poi di Ciampi, poi di Napolitano, oggi di Mattarella che sempre gli riconoscono “l’alto senso delle Istituzioni”, omaggiato con gran croci al merito e segrete missioni. Compresa quella di consolare le opposizioni, memorabili i giri di giostra della Bicamerale offerti al giovane pioniere D’Alema, che lasciò giocare per 18 mesi prima di farlo scendere. Artefice di crostate e desistenze, patti e sotto patti, con Fini, Veltroni, Rutelli, Bossi, fino a quello del Nazareno, in coppia con “l’amico Denis Verdini”. E oggi con quel che resta dei renziani, pompando l’ultimo ossigeno politico per Silvio, purtroppo disinteressato a tutto, tranne che agli occhi della nuovissima Marta Fascina.
Prima di essere “un dono di Dio”, Gianni Letta fu un dono d’Abruzzo. Nacque nella remota Avezzano, patria condivisa con “l’amico Bruno Vespa”, anno 1934, da famiglia benestante.
Appena c’era un problema: “Chiedete al dottor Letta”
Padre avvocato, tre sorelle, quattro fratelli, la passione per il giornalismo, nonostante la laurea in Giurisprudenza. Primo impiego nello zuccherificio sotto casa, che gli donò l’imprinting al glucosio e anche la fidanzata, Maddalena, figlia del direttore, con la quale convolò a nozze, inaugurando una nuova vita a Roma, nella redazione centrale del Tempo, quotidiano del senatore Renato Angiolillo, giocatore d’azzardo estremo e politico moderatissimo, ma dotato di una formidabile moglie, Maria Girani Angiolillo detta Maria Saura, collezionista d’arte e d’alti papaveri, che all’ombra di Andreotti regnò per cinquant’anni sui salotti romani, dal suo villino settecentesco, fiorito in cima alla scalinata di Trinità dei Monti, apoteosi d’ogni carriera politica e vanità. Quando morì il marito-editore, anno 1973, Maria scelse Letta alla direzione del Tempo e insieme lo nominò complemento d’arredo dei suoi famosi tre tavoli da cena: Alba, Meriggio e Tramonto, metafora d’ogni carriera, dove sedevano i suoi trenta invitati, rinnovati a ogni risacca.
Nei quattro governi arcoriani, compare ogni volta che Silvio esclama: “Chiedete al dottor Letta!”, cioè quasi sempre. Mai deputato, mai ministro. Sempre e solo Onnipotente Sottosegretario. Governando il visibile e l’invisibile. Le leggi ad personam e i pasticci internazionali. Comprese la liberazione delle due Simone e quella tragica di Giuliana Sgrena, con la morte di Nicola Calipari, 5 marzo 2005, sollecitato a correre all’aeroporto per festeggiare quella notte stessa in eurovisione, visto che stava andando in onda il rito nazionale di Sanremo.
Le tragedie non lo riguardano. I soldi li lascia fare ai figli: Giampaolo, presidente di Medusa, e Marina, titolare col marito della Relais Giardini, catering d’alto bordo, ingaggiata ai G8 di Genova, finito nel sangue, e quello de L’Aquila, allestito sul sangue, con il notevole apporto dell’“amico Guido Bertolaso” che a Letta deve la sua ascesa (e caduta) di zar della Protezione civile.
Neanche le macerie lasciate da Silvio hanno impolverato i suoi abiti Battistoni. Nessun capello è andato fuori posto. Il disastro è stato anche opera sua, ma che importa? Per i rimorsi rivolgersi ai moralisti e alle cameriere, mai ai dorotei.