Avvenire, 23 luglio 2020
In Venezuela il Covid fa salire la febbre dell’oro N
Nella tradizione yekuana, uno dei sedici popoli indigeni delle rive dell’Orinoco, quando la terra si infuria con gli esseri umani, occulta le proprie ricchezze. Il territorio di oltre 111mila chilometri quadrati nel centro del Venezuela, a ridosso del confine brasiliano, deve essere davvero molto arrabbiato negli ultimi tempi, a giudicare dalla crescente difficoltà di individuare i filoni d’oro nella zona di El Callao. Là si concentrano la gran parte delle cave dell’Arco minero, la «zona di sviluppo strategico nazionale» creata da Nicolás Maduro il 24 febbraio 2016.
Da questo forziere di migliaia di tonnellate di 45 tipi di minerali, dal coltan alla bauxite ai diamanti, dipende, ora più che mai, la sopravvivenza del governo, stretto nella morsa di una triplice emergenza. All’ormai cronica crisi economica e all’isolamento internazionale prodotto dalle sanzioni Usa, si somma ora il Covid. I malati ufficiali sono poco più di 12mila, con 120 morti: tra loro anche il numero due del chavismo, Diosdado Cabello, svariati ministri, il presidente del Parlamento e 45 giornalisti della tv statale. L’opposizione, però, non riconosce le statistiche e la stessa Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha ventilato dubbi sulle proporzioni della pandemia. In ogni caso, oltre un quarto dei contagi si concentra nello Stato del Bolívar, dove si trova l’Arco minero. E il loro numero è destinato a crescere. Insieme alla febbre dell’oro, mai tanto alta come ora.
Non solo la zona strategica sfugge al lockdown generale. Il governo ha anzi deciso di incrementarne lo sfruttamento. Per aggirare la furia della terra che imprigiona i minerali nelle sue viscere, la risoluzione 0010 ha ampliato l’area di scavo, includendo le rive di sei fiumi amazzonici del bacino dell’Orinoco. Il provvedimento – che ha provocato lo sgomento dei popoli indigeni e l’indignazione dei difensori dell’ambiente – è stato siglato l’8 aprile. I suoi effetti, però, cominciano ad apparire in tutta la loro drammaticità solo ora, con la migrazione massiccia interna verso l’Arco minero. Dove le condizioni igieniche sono già di norma tragiche, come ha documentato un recente rapporto dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani. Se appenadue anni fa, nella regione, vivevano 300mila persone, ora se ne contano oltre mezzo milione, con un incremento vertiginoso negli ultimi mesi.
I minatori, tra cui anche bambini di sette, otto anni, vivono ammassati in baracche di legno e plastica, in balia degli abusi dei sindicatos, le mafie che controllano le miniere, sotto lo sguardo indifferente delle Forze armate bolivariane. In teoria, però, è l’esercito a gestire l’Arco minero fornendo sostegno logistico alle aziende che vi operano e di cui non esiste alcun registro. In pratica, sono i gruppi criminali a costringere gli operai lavorare almeno dodici ore, immersi nelle pozze fangoso di mercurio, senza alcuna protezione. Anche il minimo gesto di ribellione – reale o presunto – è punito con pene brutali. A un giovane – scrivono le Nazioni Unite – è stata amputata una mano per l’accusa di aver rubato dell’oro. Un altro è stato ucciso perché aveva osato guardare la moglie di un boss. Una donna è stata brutalmente picchiata per «scarso rendimento». Gli incidenti sono all’ordine del giorno, come i casi di paludismo, dissenteria, morbillo. L’irruzione del Covid nella regione rischia di scatenare la tempesta perfetta. Maduro, però, sa di non poter fare marcia indietro. Tra petrolio ai minimi storici e sanzioni di Washington, le casse dello Stato sono vuote. L’unico modo per placare la fame di dollari è vendere oro a Paesi e leader “amici”, disposti a ignorare i diktat statunitensi. Tra questi figurerebbe anche il maresciallo Khalifa Haftar, comandante dell’Esercito nazionale libico e rivale del governo di Fayez al-Sarraj, riconosciuto dall’Onu. Da giugno, gli Stati Uniti indagano una serie di voli sospetti a Caracas effettuati dall’aereo privato di Haftar. Quest’ultimo è solo uno dei molti clienti scomodi dell’oro venezuelano. A maggio, l’ex deputato venezuelano Adele el-Zabayar è stato accusato dagli Usa di essere il mediatore di Maduro negli affari con Hezbollah e Hamas. Poco dopo, il 12 giugno, è stato arrestato a Capo Verde, Ález Saab, considerato l’incaricato da Caracas di negoziare la vendita del metallo il principale acquirente, la Turchia di Erdogan. Le detenzioni, però, non fermano il flusso dell’oro insanguinato dell’Arco minero verso i mercati del Medio Oriente.