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 2020  luglio 23 Giovedì calendario

Una vecchia intervista a Bob Dylan

Squilla il telefono di casa. «Hello?» Sì, pronto, chi parla? «I’m Bob Dylan». Se non fossi stato in attesa di quella chiamata, avrei pensato a uno scherzo, a uno dei tanti amici che sapevano imitare benissimo la sua voce nasale e storta. E invece successe davvero, il 23 giugno del 1993 Dylan mi chiamò a casa, ma solo perché i suoi manager l’avevano convinto a concedere qualche minuto del suo tempo per fare pubblicità ai concerti che avrebbe tenuto di lì a poco in Italia.
Per gli standard dylaniani era già una concessione enorme. Ma fu una telefonata breve, registrata utilizzando la segreteria telefonica per non perdere neanche una parola dell’oracolo, un dialogo surreale e perfino divertente, ma scarno, con poche risposte, di quelle che ti ritrovi in mano quando un artista ti parla ma in realtà non ti sta dicendo nulla. L’occasione della vita, quella vera, capitò qualche anno dopo, nei primi giorni di settembre del 2001. Dylan si presentò a Roma per l’uscita del disco Love and theft, per un incontro a livello europeo. L’unico giornale italiano ammesso all’evento fu La Repubblica, e quella che segue rimane a tutt’oggi l’unica vera intervista mai rilasciata da Bob Dylan in Italia. Quel giorno aveva voglia di parlare, asciutto, acuto e pungente come nella sua natura, ma a suo modo generoso. Quando entrò nella stanza la prima cosa che pensai è che non mi era mai successo di provare in modo così netto la sensazione di incontrare la Storia. Era pur sempre uno dei grandi protagonisti del Novecento, non meno di Picasso, Martin Luther King, Stravinsky o Papa Giovanni XXIII. Era l’uomo che aveva fornito la parola alla musica popolare di tutto il mondo. Arrivò vestito come un gentiluomo del vecchio West, in nero e grigio, col volto ironico, asimmetrico, più saggio di quanto fosse un tempo, con due occhi celesti spaventosamente grandi e attenti, guizzanti come le finestre di una grande mente che lavora instancabilmente. Cortese ma guardingo, come perplesso di fronte a qualcosa che non gli era del tutto familiare, malgrado i tanti anni di musica: parlare di se stesso.

Quando va in scena sa esattamente quello che accadrà?
«Abbastanza. Di solito suono per la gente che sta dietro, mi disinteresso a quelli che ho di fronte perché quasi sempre sono già venuti ad altri concerti, saranno lì comunque, e gli piacerà quello che ascoltano, in un modo o nell’altro. Per questo cerchiamo di raggiungere la gente che è nelle file più lontane, che potrebbe essere lì per la prima volta».
Ora fa concerti più di quanto abbia mai fatto prima. Tra il ’66 e il ’74 non ha praticamente suonato dal vivo. Le piace di più il pubblico oggi?
«Quando cita quei tempi presumo si riferisca a quando la gente reagiva in modo negativo a quando suonavo elettrico?».
Non necessariamente… Ma perchè fa tanti concerti oggi?
«Sicuramente in America c’è gente che fa più concerti di me».
Si dice che probabilmente sia più felice nel bus del tour che non in una delle sue diciassette case. Corretto?
«I bus… stanno diventando molto lussuosi ora. Sono abbastanza a mio agio, per come lo si può essere, felice come potrei esserlo a casa. Non posso negare di sentirmi a casa praticamente ovunque».
Però ha scritto di essere infastidito da questa storia del "never ending tour"…
«Sì mi irrita, voglio dire, naturalmente tutto avrà una fine… Davvero la gente deve pensare ai miei concerti come al tour infinito? Senza alcun dubbio finirà. Ciò che ci unisce tutti, la caratteristica basilare di tutti noi, è la mortalità. Nient’altro ci rende tutti così vicini».
Riflette spesso su questo tema?
«Non direi molto, ma quando la gente vicino a te scompare... io posso vedere me stesso negli altri, questo è il modo in cui ci penso. Del resto appena una persona entra nel mondo, è abbastanza vecchia da lasciarlo».
Si dice che lei sia tra i candidati al Nobel per la letteratura. Ne è al corrente? (il premio gli è stato conferito conferito nel 2016, ndr)
«Sì l’ho sentito dire, ma chi mi metterebbe in compagnia di… Hemingway? Steinbeck? Non sono certo di appartenere a questa categoria di persone, perché… io suono».
È interessato ai nuovi scrittori?
«Sì, ma non credo che ce ne siano. Viviamo in un’era differente. I media sono molto invadenti. Cosa può pensare di scrivere un autore che tu non veda ogni giorno sui giornali o in televisione?».
Ma ci sono emozioni che devono essere espresse…
«Sì, ma i media scatenano comunque le emozioni della gente. Quando scrivevano Rimbaud, William Blake, Shelley o Byron, non esistevano media, solo bollettini, e tu eri libero di mettere giù tutto quello che arrivava nella tua mente».
Si sente libero quando scrive?
«Beh, non mi metto mai a sedere e scrivere. I miei versi entrano nelle canzoni, hanno una certa struttura, devono conformarsi a un determinato idioma, non sono in forma libera, e non c’è modo di spingerli in qualcosa di ideologico. Non puoi farlo in una canzone».
Ma in qualche occasione lo ha fatto…
«L’ho fatto? Se l’ho fatto è stato "de facto". Non sono mai partito per farlo intenzionalmente. Non io, forse altri l’hanno fatto, ma non io».
Crede che la tv e i media abbiano ucciso poesia e letteratura?
«Assolutamente, perché perfino la letteratura è scritta per un pubblico. Nessuno, nemmeno Kafka si metteva a scrivere qualcosa che non doveva essere visto. Chi scrive vuole essere letto, cerca qualche tipo di accettazione. Ma i media ora fanno questo per tutti. Non puoi immaginare nulla di più orribile di quello che vedi nei media, specialmente nei notiziari. Ci sono pensieri che si potrebbero pensare e sopprimere per sempre. Ma li vedi nei media e così non potrai mai più cancellarli. Cosa può fare uno scrittore se ogni idea è esposta prima di arrivarci e farla evolvere?».
Su una cosa è sempre stato molto reticente, ovvero parlare del periodo successivo all’incidente di moto del 1966, in cui è sparito per lungo tempo dalle scene, non si è mai capito se la storia dell’incidente sia reale o ne abbia approfittato per dileguarsi…
«Qual è la domanda?».
Era l’epoca del "peace and love", e George Harrison disse che i Beatles non avrebbero più fatto concerti. L’incidente di moto fu il suo modo di dire la stessa cosa?
«È difficile per me puntualizzare con precisione ogni volta che prendo una decisione consapevole. Ma ovviamente nel periodo di cui parla non avevo voglia di andare fuori ed esibirmi. Non mi sentivo parte di quella cultura».
Frequenta Internet?
«Frequentare Internet? Io ho paura di andare su Internet, ho paura che qualche pervertito possa adescarmi da qualche parte…».
Non crede che ci sia un atteggiamento quasi religioso nei suoi fan più estremi?
«Non credo realmente di avere fan così estremisti. Molti hanno visto un numero elevatissimo di miei concerti, ma non penso a loro come degli estremisti. E non vedo un approccio religioso. E poi di quale religione sarebbero adepti? Se lo sono, che tipo di sacrifici compiono e rivolti a chi? Se mai ci fosse chi compie sacrifici, vorrei sapere dove e quando, perché vorrei essere lì».
Ci sono molti libri pubblicati sul suo conto. Li ha letti?
«Non ne ho più letti dopo che uscì la biografia di Shelton. È difficile leggere di se stessi perché nella propria mente le cose non accadono mai in quel modo. Sembra tutto fittizio, come leggere di qualcun altro».
Non ha avuto la tentazione di scrivere di se stesso?
«Sì, in realtà lo sto facendo».
Crede che ora sia il momento giusto per riflettere sul suo passato, o stava preparando questo libro da anni?
«Credo che quello che sto scrivendo stesse cercando da tempo la strada per uscire, non è una storia del passato a mio uso e consumo. È qualcosa di molto diverso e posso permettermelo perché sono una persona famosa. Utilizzo la mia fama per essere libero di scrivere quello che voglio (sta parlando di Chronicles Vol. 1, l’autobiografia pubblicata nel 2004 ndr)».
Non aveva fatto qualcosa di simile quando uscì "Tarantula"?
«No, le cose in quel momento stavano correndo senza controllo, e non era mia intenzione scrivere un libro. All’epoca avevo un manager (il controverso Albert Grossman ndr) a cui chiesero: bene, lui scrive tutte queste canzoni, cos’altro scrive? Magari sta scrivendo un libro? E lui, certo che sta scrivendo un libro. E noi vogliamo pubblicarlo, gli risposero. Era una di quelle situazioni in cui lui prendeva accordi e poi toccava a me scrivere il libro. Non era qualcosa a cui consapevolmente ero preparato. Lo ha fatto in diverse occasioni. Una volta mi ritrovai in uno show televisivo, dove dovevo recitare, io credevo di dover cantare e scoprii la cosa solo lì nello studio, queste cose succedevano in quella parte del secolo scorso».
Molto tempo fa..
«Ere fa…».
Nelle canzoni di "Love and Theft" ci sono versi che potrebbero sembrare autobiografici...
«Probabilmente, non vedo come potrebbe essere altrimenti... Ma non c’ è nulla di premeditato. Molte di queste liriche sono state scritte in una sorta di stream of consciousness ».
Una volta ha scritto: "Il futuro per me è già una cosa del passato".
«L’ ho detto per tutti. Non sono forse il portavoce di una generazione?».
Dal vivo canta spesso vecchie canzoni, come "Song to Woody". È qualcosa di più che un rapporto astratto con il passato?
«È perché sono contento di aver scritto quella canzone. Al di là di tutto Woody Guthrie rimane un fenomenale performer. È come Charlie Parker, Hank Williams o altri di quella statura».
Beh, neanche le sue canzoni possono essere considerate un semplice sottofondo…
«No, le mie canzoni sono tutte cantabili. Sono attuali. Questa è l’età del ferro, ma prima c’era dell’altro e noi possiamo ancora percepirlo. Se cammini per le strade di una città come Roma, ti rendi conto che qui c’era gente prima di te e forse erano a un livello più alto di quanto noi possiamo essere».
Dall’albergo in cui siamo si vede la scalinata di Trinità dei Monti, o Spanish steps come la chiamano gli anglosassoni, che Dylan citava in When I paint my masterpiece prima di cantare: " Devo correre subito alla mia stanza d’albergo dove ho un appuntamento con la nipote di Botticelli". A proposito di Storia.