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 2020  luglio 23 Giovedì calendario

Intervista a Sean Penn

Più attivista che attore e regista. Sean Penn, sessant’anni il 17 agosto, è uno che si rimbocca le maniche. Fin dall’inizio della pandemia si è attivato con la sua fondazione CORE, Community Organized Relief Effort, che fondò nel 2010 dopo il terremoto ad Haiti. Grazie ai suoi volontari offre test Covid gratuiti soprattutto a New York e a Los Angeles, dove ha aperto varie sedi in cui fare le visite soprattutto nelle chiese e nelle parrocchie. Un impegno, quello umanitario, che lo ha tenuto in parte lontano dal cinema anche se di recente ha diretto il film Flag Day , in cui recita accanto alla figlia Dylan Penn, storia della figlia di un artista che cerca di far pace con il passato del padre. «Abbiamo tutti assistito col cuore spezzato alla diffusione del virus e alla conta delle vittime» ci dice Penn via Zoom dalla sua casa di Los Angeles, a due isolati dall’abitazione della mamma 92enne. Capelli in disordine, una maglietta con la scritta "Actually I am in Havana", una sigaretta dopo l’altra. «Le cose sono precipitate ovunque, anche nella mia California. Questo virus colpisce soprattutto gli afroamericani, gli anziani, oltre a tutti noi».
Com’è stato lavorare con sua figlia?
«Un’esperienza esilarante e spaventosamente bella. Il primo giorno di riprese, al mio primo ciak, ho detto "azione" e la troupe è rimasta a bocca aperta. Dylan è un fenomeno di realismo. Non mi ero mai diretto prima, se non l’avessi fatto con lei non ci sarei mai riuscito. Ha portato nel film un carico di esperienza e amore per la recitazione che evidentemente ha sempre avuto dentro di sé. È fantastico quando tua figlia diventa la tua attrice preferita, sono un uomo fortunato».
Non la vediamo al cinema così spesso come in passato. È stanco?
«No, amo il cinema ma sono fra coloro che hanno sofferto nel vedere quanti progetti interessanti si siano spostati dal cinema alla televisione. Non so se le sale potranno tornare a funzionare al di là delle saghe ad alto budget, non so se le nuove generazioni cercheranno nel cinema storie importanti come accadde, ad esempio, dopo il Vietnam. Forse sono un dinosauro, ma il mio amore per il vero cinema è ancora lì, vivo e robusto. Amo l’equilibrio e detesto che nell’industria siano spesso protagonisti dei circhi equestri. Di quei filmoni posso vederne uno all’anno, ma non di più. Oggi è come se entrassi in un cinema per cercare la ragazza della quale mi innamorai tanto tempo fa, senza trovarla».
Paolo Sorrentino è a Napoli in questi giorni per i sopralluoghi per il nuovo film. Voi avete girato insieme "This must be the place", nel 2011. Tornerebbe a lavorare con lui?
«Paolo è uno dei registi più creativi e magici che esistano su questa terra. Ed è un uomo adorabile. Sì, ci siamo tenuti in contatto e tornerei immediatamente a lavorare con lui se solo me lo chiedesse».
Sta per compiere 60 anni. Un punto di svolta?
«Sei-zero... Finalmente. Ho sempre pensato che mi sarei sentito nella mia condizione ideale quando avrei avuto 77 anni, quindi ne ho ancora diciassette davanti a me. Non so perché, ma mi sento un 77enne da quando ero bambino... Per fortuna ho una compagna straordinaria di cui sono pazzamente innamorato, ora è in Georgia a cercare nuove sedi dove fare test Covid per le comunità di immigrati ma so che quando tornerà si occuperà dei festeggiamenti per il mio compleanno. Immagino che faremo qualcosa nel rispetto delle regole, pochi amici e ben distanziati».
Che cosa pensa di quello che sta accadendo a Hollywood con la cosiddetta "cancel culture"?
«È vero che in molti luoghi c’è un vuoto pauroso di integrità morale. Negli studios ci sono personaggi eccellenti e tutti li conosciamo, ma è ancora troppo diffusa una certa cecità istituzionale. Tanti anni fa partecipai al Charlie Rose Show , c’erano Martin Scorsese e il capo della Disney che parlavano di Kundun, il film di Scorsese dall’autobiografia del Dalai Lama. La Disney stava aprendo uno studio in Cina, quindi dovevano mantenere un certo equilibrio nella promozione del film. E Scorsese disse: "Noi siamo nel business del cinema, non dei diritti umani". Non è un’ affermazione assurda? Io, al contrario, credo che tutti viviamo nel business dei diritti umani, dev’essere il primo pensiero quando ci svegliamo e se non è così, è un fallimento per tutta l’umanità. Dopo il Covid bisognerebbe individuare le grandi compagnie che danneggiano il pianeta e boicottarle. E sostenere i grandi movimenti come Black Lives Matter: sta avendo un impatto formidabile, solo così il mondo potrà cambiare davvero».