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 2020  luglio 23 Giovedì calendario

Intervista a Joe R. Lansdale

«Malgrado tutto, credo e crederò sempre nel sogno americano: la possibilità di farcela dal nulla, grazie al talento, all’impegno e al duro lavoro. Nemmeno Trump o il coronavirus riusciranno a portarcelo via». E se lo dice lui, Joe R. Lansdale, che nei libri quel mito a stelle e strisce lo ha fatto spesso e volentieri a pezzi – ammantandolo di avidità, prepotenza, delitto – allora bisogna proprio credergli. Collegato in video via Zoom dalla sua casa nel Texas orientale, il cantastorie più hard boiled ed eclettico che ci sia, capace di passare con disinvoltura dal fumetto alle sceneggiature, dai romanzi ai racconti, spiega perché stavolta ha lasciato la sua serie noir più amata (con protagonisti i detective Hap e Leonard) per Una Cadillac rosso fuoco , in uscita per Einaudi Stile libero. Avventura pulp e citazionista da leggere d’un fiato: un venditore d’auto anni Sessanta si fa coinvolgere da una dark lady in una spirale di sesso, cupidigia e violenza. Il finale, ovviamente, non lo sveliamo. Ma a emergere è il ritratto di un Paese che ha perso l’innocenza molto, troppo tempo fa.

Allora, Joe, prima domanda d’obbligo: come sta vivendo l’estate del coronavirus?
«Per me non è cambiato quasi nulla: vivo tra i boschi, lavoro in casa, sono naturalmente distanziato. Quando vado a fare provviste indosso la mascherina, ma con le precauzioni non sono costretto ad andare oltre».
E intanto qui a Roma arriva "Una Cadillac rosso fuoco". Con una storia che sembra un mix tra due capolavori nerissimi del grande James M. Cain, "La morte paga doppio" e "Il postino suona sempre due volte": omaggio voluto?
«Certo! L’intreccio e le atmosfere di questo romanzo sono un tributo a Cain. Anche se poi ho voluto aggiungerci qualche elemento diverso nella trama, e il mio background nell’ambientazione».
C’è tanto humor nero: l’ironia è un elemento necessario del noir?
«Non so se è vero in generale. Io però ho un modo umoristico di vedere le cose, perciò l’ironia quando scrivo mi viene naturale. Le cose più tristi, assurde, spaventose hanno sempre un lato comico, non è vero? Mark Twain una volta disse: "Non c’è umorismo in paradiso".
Giustissimo».
In effetti il suo libro è agli antipodi del paradiso: una visione distorta del sogno americano in cui i personaggi sono disposti a ogni bassezza pur di emergere.
«Io però in quel sogno ci credo ancora. Credo in questo Paese come terra delle opportunità. Il problema è che poi ci sono state delle deviazioni dal percorso, nel nome di un insano capitalismo fatto solo di avidità. Ma io stesso sono un prodotto del sogno americano nella sua forma originaria: vengo dalla povertà, ho lavorato tanto per arrivare. Il classico uomo che si è fatto da sé. E come me devono poterlo fare tutti: donne, afroamericani... So che è difficile applicarlo, ma io credo fermamente nell’idea».
Però la coincidenza tra l’era Trump e il Covid non rischia di portare l’America in una fase buia?
«Sono sempre ottimista e pessimista allo stesso tempo. A mio giudizio il virus toglie la maschera a Trump: è una di quelle cose su cui non si può mentire impunemente. Conosco intere famiglie che gli erano devote e che poi si sono ammalate, spesso in modo serio: il loro mondo è crollato. Alcune criticità, per essere comprese, richiedono tempo, il virus invece è immediato, cambia il tuo modo di vivere e di pensare in un attimo. Anche per questo, tante persone che lo hanno votato sono stufe di lui».
Intanto vivete una stagione di nuovo razzismo, tema presente nel suo romanzo.
«Il razzismo è un’emergenza ovunque, anche nella vostra Europa. Da noi il problema è che molti bianchi non riescono a vedere quanto è dura la vita in molte delle comunità nere, quante minori opportunità abbiano gli afroamericani rispetto ai bianchi. Ma le cose stanno cambiando, grazie ai giovanissimi. Su questo sono fiducioso».
Anche riguardo al Texas?
«È il posto che conosco, quello in cui sono cresciuto. E che ha un tasso di complessità davvero unico. Credo che gli esseri umani siano complicati ovunque, ma qui lo sono di più. Perfino la relazione tra cultura bianca, razzismo e cultura nera è particolarmente contorta. E comunque questa zona è ciò che comprendo meglio: perciò ne scrivo sempre».
Da texano doc, che rapporto ha con le armi?
«Ne posseggo una, era di mio padre. Ma non sono un fan, né un collezionista. In America credo sia impossibile sradicare questa cultura. Ma se vinceranno i democratici possiamo sperare in un bando parziale, che renda fuorilegge per i privati cittadini le armi da guerra o quelle in uso alla polizia. Come è avvenuto in Australia. Deve essere questo il nostro modello realistico».
Altro tema caldo del momento: il dibattito sugli eccessi del politicamente corretto.
«E così torniamo alla questione dell’ironia di cui parlavamo prima: la gente sembra aver perso il senso dello humor. Viene preso tutto troppo sul serio. E ogni cosa – i libri, le opere d’arte, il passato – finisce per essere giudicata fuori dal contesto. Capisco che alcune persone o minoranze si possano sentire offese da certi monumenti o altro, ma bisogna sempre inserire ciascuna opera in un quadro più generale. E poi come posso capire cos’è il razzismo se non leggo libri scritti in epoca razzista? Se non si conosce ciò che abbiamo alle spalle, siamo destinati a ripetere gli stessi errori».
Il grande rischio è l’intolleranza?
«Sì. Per carità, non mi piacciono le bandiere sudiste o roba del genere: ma la storia non può essere riscritta, solo interpretata criticamente. Ormai perfino grandi autori come Mark Twain sono censurati. C’è differenza tra il giusto politicamente corretto, che consiste nel trattare correttamente tutti, e quello che fa tacere il dissenso e riscrive la storia. Se qualcosa, un libro, un film, non ti piace, scartalo: ma lascia a tutti la possibilità di scelta. È una questione di libertà».