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 2020  luglio 23 Giovedì calendario

Il giudice Franco registrava i colleghi

Non ci furono solo i file audio confezionati in casa Berlusconi. Le sorprese continuano, intorno alla sentenza sui diritti Mediaset del primo agosto 2013. Il registratore attivato a Palazzo Grazioli pochi mesi dopo, per immortalare, chissà se a sua insaputa o col suo consenso, le frasi del giudice di Cassazione Amedeo Franco (poi morto) che seminavano discredito sulla decisione e sui colleghi – «Una porcheria... A mio parere (Berlusconi, ndr ) ha subito una grave ingiustizia... L’impressione è che tutta la vicenda sia stata guidata dall’alto» – non fu l’unico dispositivo di captazione messo in campo. Quelle rivelazioni sono state depositate agli atti della Corte di Strasburgo, venti giorni fa, per delegittimare la condanna definitiva a quattro anni di carcere, per frode fiscale, a carico dell’ex presidente del Consiglio. Ma ora si scopre il lato B della vicenda.
Franco, il giudice che “parla” da morto e ora non può spiegare né difendersi, il cui nome e la cui voce vengono esposti dalla difesa dell’ex Cavaliere per “smontare” quel verdetto, è lo stesso magistrato che aveva provato, sottobanco, appena prima della sentenza, a registrare la discussione tra loro. Perché? Impossibile saperlo. Ma la corsa a tradire la segretezza del lavoro dei magistrati arrivò, dunque, fin dentro la camera di consiglio della Cassazione.
Storia di un clamoroso segreto lungo sette anni. Custodito tra alcune toghe della Suprema Corte e pochissime altre. Che Repubblica è in grado di ricostruire. Come si giustificò con i colleghi, Franco? Quale pretesto addusse? Di fronte a queste domande, oggi, il presidente di quel collegio, il giudice Antonio Esposito, prima fonte diretta, scuote la testa. «Mi dispiace, di questo non parlo». Ma presidente, perché non segnalare una tale anomalia? «Ho detto – scandisce ancora – che sono tenuto al segreto, non posso entrare assolutamente nel merito». Stesso cortese rifiuto da parte del giudice Giuseppe De Marzo: «È noto che non si può assolutamente parlare di cosa accade in una camera di consiglio, davvero». Anche un terzo magistrato del collegio oppone il segreto. «Rispetto il lavoro d’inchiesta, ma non posso affermare né smentire nulla. Potrei essere liberato dal mio dovere di totale riserbo solo se venissi interrogato, da un organo giudiziario o amministrativo», replica il consigliere Ercole Aprile. Si tratta del giudice che, tre anni dopo quella sentenza, membro della quinta commissione al Csm, disse no – per motivi non divulgati – alla nomina del giudice Franco come presidente di sezione: avvenne in una seduta, tesa, in cui quella “promozione” passò quasi all’unanimità (si astenne, insieme con Aprile, anche Nicola Clivio) con il primo placet dell’allora consigliera Elisabetta Casellati. Tre fonti dirette, dunque, Esposito, Aprile e De Marzo, alzano le mani: non possono smentire.
Ma di quel fatto – assolutamente unico e che non attiene all’adozione della decisione, ma è quasi un fulmine piovuto sul tavolo – qualcosa trapela. E altre due fonti indirette vengono a conoscenza della circostanza. Le chiameremo Toga 1. E Toga 2. E confermano tutto.
Cassazione, dunque. Estate di sette anni fa. Primo agosto, sezione feriale, a causa dell’imminente scadenza del termine di prescrizione (dopo la condanna di primo e secondo grado). Cinque giudici al lavoro, sette ore di camera di consiglio che finiranno per confermare le condanne a carico dell’ex Cavaliere e dei dirigenti Mediaset per frode fiscale. Nel collegio guidato da Esposito siedono appunto, oltre a Franco giudice relatore, Claudio D’Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo. La discussione sta andando già avanti da un po’. D’un tratto, si sentono rumori di fondo.
Racconta Toga 1: «Dopo qualche secondo, quel gracchiare assume un suono più nitido: sembrano proprio le loro voci, di poco prima, registrate. Il giudice Franco si alza di scatto, mette le mani in tasca come a chiudere qualcosa, a premere un tasto. Imbarazzato, così apparirebbe ai colleghi, esce, va in bagno. Torna dopo poco. Dice che è tutto a posto. I colleghi sono interdetti. Un altro di loro si stacca e va in bagno. E scopre, in un angolo, un dispositivo o un cellulare nascosto: lo prende, lo riporta in camera. E non so altro. Spiegazioni? Non mi risulta che Franco ne abbia date, di plausibili».
Repubblica rintraccia anche Toga 2. Che aggiunge: «È lo stesso racconto, per sommi capi, che raccolsi anche io. Questa storia provocò molto turbamento e amarezza tra i quattro giudici. Un gesto equivoco. Ma senza certezze». Perché non fu denunciato tutto? Si ritenne che «si fosse sfiorato il rischio di una eventuale divulgazione, forse bloccata in tempo», fu il ragionamento.
La giurisprudenza non imponeva, è la conclusione verosimilmente raggiunta, la segnalazione all’autorità giudiziaria. Chiaro però che una tale clamorosa rivelazione avrebbe costretto a cambiare il collegio e, forse, mandato tutto in prescrizione. Ma il segreto della camera è superato solo dal prevalente obbligo di denuncia, e si prese atto che non c’era un reato. L’evento rimase così sotto silenzio, legato al segreto. Inevitabile che riemerga in queste ore, al deposito delle parole (post mortem) con cui il giudice Franco sconfessa le motivazioni di una sentenza che egli stesso aveva poi firmato con gli altri.
Così il racconto di quella “captazione” assume quasi il peso di una circostanza-chiave. Che spiegherebbe perché, dopo quell’episodio, Aprile per la sua opposizione a Franco rischiò di bloccare in Csm un intero pacchetto di nomine. E spiega soprattutto come, dopo essere stato bloccato nell’atto di immortalare la camera di consiglio, il giudice Franco senta l’irrefrenabile bisogno – così come la racconta l’attuale deputato Cosimo Ferri, che lo accompagnò – di entrare a Palazzo Grazioli. Di dialogare con il condannato e consegnare la sua “verità” sul verdetto, direttamente a lui. In casa Berlusconi. Lì dove nessun registratore potrebbe mai rischiare di incepparsi.