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 2020  luglio 22 Mercoledì calendario

Il Sudan archivia sharia e mutilazioni

Sotto il ponte di ferro di Khartoum il Nilo Bianco continua a scendere placido, indifferente al corso della storia che di colpo ha accelerato anche da queste parti. Un anno fa i cinque milioni di abitanti erano ancora inebriati dalla vittoria della rivoluzione, la marcia del milione che il 30 giugno, giusto trent’anni dopo la presa del potere da parte di Omar al-Bashir, aveva dato la spallata finale al regime militare. Una vittoria pacifica che aveva spinto il vecchio raiss dietro le sbarre e costretto i generali a un governo di transizione e di compromesso, con un primo ministro laico e moderato, Abdalla Hamdok. «Hokume madaniya», «governo laico» era lo slogan di quei giorni. Un Stato senza più stellette ma, come sottinteso, anche senza la sharia imposta dagli islamisti che per tre decenni, fra alti e bassi, avevano appoggiato il regime.
Il nuovo governo è rimasto a lungo nelle secche ma l’estate, con la piena del Nilo, ha portato molti cambiamenti. Ieri si è aperto il processo più importante contro Al-Bashir, dopo quello per appropriazione indebita di fondi pubblici che gli è costato la condanna a due anni carcere. Questa volta rischia il patibolo, perché è accusato di attentato alla Costituzione per il colpo di Stato del 1989. E nelle scorse settimane il governo ha annunciato l’abolizione delle leggi islamiche e delle discriminazioni vergognose nei confronti delle donne, a partire dalle mutilazioni genitali. Fra le norme spazzate via c’è anche il divieto di bere alcol, un bando completo che riguardava anche stranieri non musulmani e la minoranza cristiana. Adesso i visitatori nella capitale potranno sorbirsi un bel Martini ghiacciato sulle rive del grande fiume, in uno dei locali con i tavoli nei dehors affacciati sull’acqua.
Una piccola conquista rispetto ai cambiamenti che ancora aspettano il Paese. Il governo di transizione resterà in carica per altri 27 mesi e deve affrontare un crisi economica spaventosa, l’emergenza coronavirus, le tensioni etniche che riesplodono nel Darfur, la regione massacrata dalla repressione di Al-Bashir. Per questo il processo al raiss 76enne è un segnale importante. Che si fa sul serio, che ci sarà giustizia. 
La richiesta di giudizio è partita dal basso, dall’associazione di avvocati già protagonista della rivoluzione. Uno di loro, Moaz Hadra, sottolinea come sia «la prima volta nella storia moderna del mondo arabo che il protagonista di un colpo di Stato viene processato». Bashir e gli altri imputati, dieci militari e sei civili, spodestarono l’allora primo ministro Sadiq al-Mahdi, nipote dell’eroe nazionale della lotta contro i britannici ed esponente della corrente sufi, più moderata, dell’islam.
Poteva essere un Sudan diverso e invece in trent’anni di pugno di ferro di Al-Bashir hanno lasciato ferite sanguinanti. La più terribile quella nel Darfur, 300 mila morti e tre milioni di sfollati dal 2003 a oggi. La missione Onu Unamid ha frenato i massacri dei Janjaweed, la milizia araba a cavallo che metteva a ferro e fuoco i villaggi. Ma i responsabili politici non sono mai stati giudicati e il primo è lo stesso Al-Bashir, ricercato dalla Corte penale internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità. Il nuovo governo non si è ancora deciso a consegnare il dittatore. Uno dei motivi è il ruolo nel governo di transizione del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto «Hemeti», che ricopre la carica di vicepresidente.
Dagalo è il leader dei Janjaweed, il macellaio esecutore nel Darfur. Viene dalla tribù Rizegait, arabi nomadi che abitano al limite del mondo arabofono e africano, con lo scopo storico di islamizzare e arabizzare nuove terre. Ma è anche il capo dei Berretti rossi, la milizia paramilitare protagonista dell’atto più grave nella rivoluzione del 2019, l’uccisione di oltre 100 manifestanti del sit-in davanti al quartier generale delle forze armate, nella notte fra il 3 e il 4 giugno. Sembrava la fine dei sogni di libertà ma dopo un mese anche Dagalo ha dovuto cedere alle pressioni internazionali, con i suoi alleati del Golfo che gli hanno imposto di mollare Al-Bashir e riavvicinare il Paese agli Stati Uniti. La presenza di Dagalo nell’esecutivo resta un freno, ed è probabile che cercherà di bloccare in tutti i modi l’estradizione del suo ex mentore. Ma i cambiamenti vanno avanti lo stesso.
La fine della sharia è una ventata di libertà. Oltre al divieto di bere alcol sono stati abrogati il reato di apostasia, che poteva portare alla pena di morte, e le fustigazioni. «Aboliremo tutte le leggi che violano i diritti umani in Sudan», ha promesso il ministro della Giustizia Nasredeen Abdulbari. La minoranza cristiana, circa il 3 per cento della popolazione, potrà tornare a bere e a commerciare alcolici. Il clima austero imposto da Al-Bashir ma soprattutto dal suo ispiratore religioso, l’imam Hassan al-Tourabi, è svanito. Al-Tourabi era leader del Fronte islamico nazionale e per un decennio eminenza grigia, anzi nera del regime, deciso a trasformare il Paese in un regno islamista, fino al punto di dare ospitalità a Osama bin Laden. Ma Khartoum non ha mai ceduto fino in fondo. Al confine fra il mondo arabo e quello africano, con i suoi grandi viali, le donne dai veli colorati, lo sguardo, il portamento fiero, sognava un altro destino. Adesso ha l’occasione per compierlo.