Corriere della Sera, 22 luglio 2020
Il boicottaggio dei fagioli
Ecco, nell’America polarizzata ci mancava solo la guerra dei fagioli in scatola. Tutto è cominciato il 9 luglio scorso, quando Robert Unanue, amministratore delegato di Goya, è uscito allo scoperto con parole di ammirazione per Donald Trump: «Siamo fortunati ad avere un leader così, è un costruttore». Goya fu fondata nel 1936 da un immigrato spagnolo proveniente da Porto Rico. Ma da tre generazioni è una corporation americana a tutti gli effetti, con sede nel New Jersey e un fatturato di 1,5 miliardi di dollari. Produce circa 800 specialità alimentari, tra le quali, appunto, una varietà di fagioli molto popolare nella comunità latina. In breve sulla rete ha preso forma questo sillogismo: Trump insulta continuamente i «latinos»; l’amministratore delegato di Goya appoggia Trump, quindi i «latinos» devono boicottare Goya.
Il 15 luglio Ivanka Trump si è fatta fotografare con una lattina di fagioli con la marca bene in vista. Il presidente, come al solito, ci ha messo il carico, schierando i legumi confezionati sulla sua scrivania, nello Studio Ovale. A quel punto tutti si sono sentiti in dovere di intervenire nella rissa. A cominciare dalla deputata radical Alexandria Ocasio-Cortez, che ha twittato sarcastica: «Sto cercando su Google una ricetta per fare l’Adobo (la carne marinata, specialità portoricana, ndr) senza i fagioli Goya».
In realtà nessuno ci sta facendo una gran figura. Robert Unanue poteva risparmiarsi un’uscita ingenua per un manager che si rivolge a un grande mercato. Trump e Ivanka hanno abusato della loro posizione. E il fronte del boicottaggio? Due considerazioni. Primo: in fondo Unanue ha espresso solo un’opinione, non commesso un crimine di guerra. Secondo: Ocasio-Cortez e soci non hanno pensato che boicottare Goya significa essenzialmente danneggiare i quattromila lavoratori dell’azienda. La famosa «working class» da mobilitare per battere Trump.