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 2020  luglio 21 Martedì calendario

Cosa rivelano le bio degli uomini su Tinder

Viviamo in un’epoca in cui la condivisione dei sentimenti sui social – dall’estasi amorosa al più banale buonumore causato da una torta o da un tramonto – ha reso l’innamoramento un fatto pubblico e la soddisfazione personale una messa in scena acchiappa-like.
Dal fenomeno dei Ferragnez, ammirati anche per l’apparente completezza della loro felicità coniugale e lavorativa, ai profili di coppie che esibiscono i loro rituali sentimentali (viaggi, cucina, etc), sembra non esistere più una dimensione privata dei sentimenti (e della contemplazione del reale), o che comunque non sia più desiderabile.
Naturalmente, questi amori iper-social nascono ormai sempre più spesso nello stesso luogo dove sono spudoratamente messi in scena: nelle dating app.
Secondo la piattaforma di marketing Leanplum, ogni giorno le “coppie” formate su Tinder, ovvero la coincidenza di due match ricambiati, di due persone che si scelgono a vicenda, ammonta a più di ventisei milioni.
Un terapeuta di New York, Matt Lundquist, racconta questo cambiamento sociale con un dettaglio significativo: ha notato che il suo tono è ormai meno curioso ed elettrizzato quando chiede ai suoi pazienti come si sono conosciuti, poiché la risposta è quasi sempre che è avvenuto su Tinder.
Ho diverse amiche che hanno frequentato con entusiasmo o cinismo l’app di incontri numero uno, nata nel 2012 da una costola di Grindr, la prima dating app su cellulare basata su un sistema di geolocalizzazione: alcune hanno trovato l’amore, dopo una serie di buchi nell’acqua variamente desolanti, altre hanno trovato solo umiliazioni e amarezza, altre si sono tuffate con successo nelle cosiddette ONS (one night stand, sesso occasionale).
A differenza di Grindr, però, il cui scopo (ricalcato dall’aspetto grafico e dalle sue caratteristiche tecniche, come la possibilità di mandare foto) è la ricerca di incontri sessuali, Tinder è confezionato con pudore: non si possono mandare foto, il lessico include espressioni come “ammiratore segreto”, sembra dunque puntare più a un discorso sentimentale, salvo poi basarsi, come Grindr, su uno scarto continuo (o promozione) di corpi.
Quello che volevo scoprire era, in quel calderone consumistico di carne e richieste, dove i nostri corpi sono ridotti a immagini fisse che il dito dell’altro sceglie se scartare (verso sinistra) o approvare (verso destra), quali differenze si potessero riscontrare tra un Paese e l’altro.
Questo, più di tutto, mi avrebbe dato l’idea di come quello che appare come un’ebay dell’eros denunciasse le diverse aspettative culturali e personali sulle donne. Ecco cosa ho scoperto.
I profili degli italiani hanno quasi tutti in comune le seguenti cose: un mezzo di trasporto, immortalato in primo piano o sullo sfondo di un selfie sorridente; un petto muscoloso fotografato allo specchio, rigorosamente dal basso, per suscitare un senso di imponenza; ma soprattutto, esaminando le bio, pare che i maschi italiani vogliano un solo tipo di donna: solare, tranquilla, semplice, positiva. Quattro parole che ne sottintendono una quinta: remissiva.
Non trovo, in settimane di sfogliata compulsiva, nemmeno un profilo che esprima una preferenza per una donna complessa, intelligente, interessante.
L’unico uomo che cerca una donna colta, dopo un match, mi scrive una serie di messaggi in un italiano sgrammaticatissimo, il che di per sé è sufficiente a depennarlo dalla statistica in questione: se la donna colta la cerca un analfabeta funzionale, la sua non è tanto un’esigenza emotiva quanto la ricerca di un feticcio esotico, un po’ come chi cerca il match con la neozelandese o norvegese di passaggio.
Poi mi aggancia un “tv producer” privo di bio (a parte la menzione del lavoro, appunto): mi scrive accusandomi di aver rubato le foto di Viola Di Grado e di spacciarmi per lei.
Quando insisto di essere io, Viola Di Grado, mantiene la sua ostilità, nonostante io non riveli di essere lì soltanto per una ricerca antropologica, e mi chiede come mai io abbia un look così aggressivo e non in linea con le mode del 2020.
Quando rispondo che non mi interessano le mode né di apparire accomodante, mi accusa di acidità, sgarbo, di essere finta e arrogante.
Io gli domando come mai si senta così minacciato dalle donne con un carattere forte, lui comincia a scrivere e non finisce più, io lo elimino dai match nel mezzo della sua digitazione.
Ed ecco un po’ di bio. Fabio: “Ciao ho 43 anni e sono alto 1.83, fisico atletico. Cerco donna sorridente, educata, altruista e con mentalità positiva”. Alessandro: “no fighe di legno, no musone, no in cerca di principe azzurro”. Michele: “AAA cercasi ragazza solare che cucini bene, che non abbia paranoie, che non si trucchi troppo, è un’utopia lo so!” Roberto: “Mi spiace non sono 1.80 e non sono perfetto! Single da 3 anni, voglio costruire qualcosa e non ho tempo da perdere: no un kg di trucco, no permalose, no serie, no pigre, no inibite, no caratterino, no chat lunghe”. Valerio: “no logorroiche, no mosce, no problemi col padre”.
Avrete notato le carrellate di NO: nemmeno il mio ultimo carrello Amazon, tra un phon e un bollitore elettrico e un pacco di croccantini per gatto, conteneva cose che io avessi scelto depennando con tanta convinzione le caratteristiche non desiderate.
E non a caso dico: cose. Gli italiani, su Tinder, ricercano solo un tipo di donna ed è quello più funzionale: semplice, poco problematica, disposta a offrire loro qualcosa che sia privo di complicazioni, inclusa quella eventuale del “principe azzurro”, ovvero di un’idealizzazione romantica e/o di un legame a lungo termine. Insomma, una bambola gonfiabile con un po’ più di autonomia, almeno quanto basta a preparare il pranzo in relativo silenzio ed essere accesa sotto le coperte.
Persino quando, con un minimo di auto-esame, si autoproclamano imperfetti, le loro pretese non si fanno più umane: l’importante è che non sia moscia, o che non sia seria, qualsiasi cosa voglia dire.
Insomma, vogliono una statuetta che potrebbe essere l’incarnazione delle fantomatiche mogli olografiche giapponesi, che però – pur nella loro sudditanza programmata – hanno la decenza di non offrire servizi sessuali.
Insomma, laddove le mogli olografiche nipponiche suscitano comunque tenerezza nel fornire il loro amore virtuale, le bio dei maschi di Tinder rivelano la misoginia degli italiani.
Proprio per misurare con esattezza la portata nazionale di questa misoginia, ho esplorato i Tinder di Londra, New York, Los Angeles, Reykjavik. L’indagine non vuole essere esaustiva sul piano globale ma fornire un solido piano di confronto. Ecco cosa ho scoperto.
A Londra, nessuna traccia di macchine sportive né di toraci scolpiti. Le foto, rispetto a quelle italiche, non sono selfie in bagno scattati dal basso ma ritratti professionali con un’enfasi sul colore degli occhi.
Nelle bio nessuno sostiene di cercare una donna sorridente, semplice e vitale.
A quanto pare, la trasposizione social del classico della misoginia “ma perché non sorridi” che tormenta, nella vita reale, le donne italiane, non esiste nel Regno Unito, dove invece le parole prevalenti sono: banter, ONS e entrepeneurship.
Insomma, sotto i cieli grigi di Londra gli uomini vanno in cerca di battute divertenti e di sesso occasionale, magari come antidoto alla frenesia ansiogena della città, e in cambio offrono la sicurezza della loro posizione lavorativa.
L’unico tipo di esigenza riguarda semmai la sfera sessuale: ricorre la parola kinky, perverso, e una serie di altri vocaboli appartenenti al lessico del BDSM.
Appena scatta il match con un ragazzo carino che menziona solo i suoi studi e i suoi interessi artistici, però, lui mi chiede «Cosa vuoi fare stasera? Io amo essere calpestato con i tacchi o essere portato in giro con un guinzaglio».
Scarto e vado avanti. Il prossimo, un entrepreneur in giacca e cravatta, mi scrive con fare aggressivo: «Sei a Londra? Così non pare dai chilometri. Come potrebbe mai funzionare?».
E l’ultimo: «Wherr are u sex girl?». Un’altra cosa spesso menzionata nelle bio è : che senso ha matchare senza scriverci? Da cui deduco che, in una scala ipotetica di consumismo emotivo-sentimentale, dove zero è empatia e dieci è alienazione, i londinesi sono circa a nove e mezzo.
Mi sposto a Reykjavik: i profili non hanno bio e non indicano nemmeno la posizione lavorativa. Solo foto sfocate, scattate con pigrizia in un pub o su sfondo mare. Ogni tanto figura un riferimento musicale o una frase sciatta come “qui non scrivo nulla, incontriamoci che è più divertente”.
L’Islanda è un paese in cui le app e la messaggistica mobile regolano anche aree basilari della vita come la sicurezza personale, in quanto la ricorrenza di terremoti e simili porta ad avvisi continui sul cellulare: l’assenza di comunicatività dei profili islandesi non indica dunque una scarsa dimestichezza con il web ma la scarsa socievolezza e l’assenza totale dei convenevoli che ho d’altronde riscontrato nei due mesi in cui, nel 2018, ho vissuto lì.
Al mio primo match inizia una conversazione incentrata sui figli di lui: quanto sono belli, quanto sono bravi. Quando finiamo di parlare di loro, la conversazione si esaurisce.
Hildur, che ho conosciuto nel nord dell’isola, mi raccontava che gli islandesi fanno molti figli e li fanno molto presto: l’Islanda favorisce infatti la vita familiare e la crescita dei figli con una serie di agevolazioni che non obbligano le giovani madri a scegliere tra prole e studio.
Inoltre, non esiste pressione sociale al matrimonio e i nuclei familiari si disgregano e aggregano con molta fluidità. Non stupisce dunque la semplicità con cui in una dating app, luogo di appuntamenti, i propri figli vengano facilmente utilizzati come topic senza nessun attrito.
Vado a New York: è finora lo scenario migliore. Ci sono intellettuali, scrittori, registi e nessuno di loro esprime preferenze degradanti sulla ragazza agognata.
Le parole più ricorrenti sono: museums, business, travel, conversation. Le foto sono sobrie e decadenti. Poi Los Angeles: guru ingioiellati, fiori dappertutto, le parole ricorrenti sono gym, beach, manager, sexy, sunset. Le foto sono ben fatte e includono molti cocktail e molti surf.
Insomma, dalle parole ricorrenti si può stabilire un profilo culturale dell’utente medio dell’app. Mi dispiace constatare che quelle del tinder italiano sono: valori, solare, vino, positività, cucina.
Secondo David Norman, che ha analizzato il ruolo della tecnologia nelle nostre vite, l’essere umano ricerca oggetti di media complessità: abbastanza semplici da capire, ma abbastanza complessi da fare uno sforzo.
Le nuove dinamiche relazionali nate dall’influenza del swipe – dal gesto superficiale e brutale di scartare qualcuno in un paio di secondi con lo scorrere di un dito – rischiano di corrodere in modo irreversibile questa ricerca di quasi-complessità che tendenzialmente caratterizza anche il rapporto amoroso (cerchiamo una coppia di facile gestione, ma la troppa armonia ci annoia): così, anche nella vita potremmo ritrovarci a schematizzare tanto il nostro partner da desiderarlo solo per i suoi pregi più banali: un gusto per il sadomaso, secondo gli inglesi, o un bel sorriso e un talento culinario secondo gli italiani.
Meglio a questo punto essere scelta da un newyorkese per i libri che ami e la tua passione per Pollock.
Se è vero che l’intero sistema dell’online dating, come scrive Barbara Ellen, ricalca un modello maschiocentrico anti-attaccamento, è fuor di dubbio che il picco del maschiocentrismo a tinte sessiste, nel mondo, lo tocchiamo noi italiani.
Provate a fare come ho fatto io: segnatevi le parole più ricorrenti nelle bio del nostro Paese. Ne uscirete con le parole crociate di un mondo affamato di donne semplici e sorridenti come le vallette della nostra TV.