Corriere della Sera, 21 luglio 2020
L’identità sbiadita del governo e dell’Italia
Il mare si ingrossa. La partita con l’Europa è molto meno agevole di quanto ci avessero fatto credere. Il nostro scafo, appesantito da un debito che ha sfondato i 2 mila 500 miliardi, imbarca acqua, costringendo ad anticipare le scadenze fiscali (invece di prorogarle al 30 settembre) e a chiudere lo stato di emergenza il 31 luglio (invece che a fine anno), con un prevedibile ma anticipato via libera a ristrutturazioni con un elevato costo umano di posti di lavoro.
L e onde lunghe e minacciose del post Covid richiederebbero mani salde al timone, una squadra in comando esperta e quindi cauta, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, più una strategia consapevole per affrontare le tante insidie e incognite del momento. Il problema è che il governo sembra aver smarrito la carta d’identità, con quella provvisoria ormai scaduta da un pezzo, visto che siamo a più di 10 mesi dall’insediamento.
Nato contro qualcosa (il Salvini senza freni del primo Papeete), il Conte 2 non è ancora riuscito a prendere una propria forma distinguibile e quindi riconoscibile. E questa indeterminatezza di indirizzi, figlia dei veti incrociati tra le forze che lo compongono, non aiuta alla costruzione di una reputazione spendibile e credibile, specie sui tavoli dove si sta giocando la partita più delicata, quella del finanziamento per ripartire dopo i disastri del virus. Che bandiera batte la nave Italia? In forza di quali ideali può contrapporsi a chi lavora alacremente per sciupare l’ultima occasione di una rinascita di un’Europa non soltanto monetaria?
Il Conte 1 era a trazione leghista e sovranista, dominato nei modi e nelle scelte dalla parte minoritaria della maggioranza, con ricette economiche populiste e chiusure a tutto campo, e a tutto mare, sul fronte dei diritti civili (prima gli italiani, porti chiusi, dio-patria-famiglia), e con una malcelata inclinazione a stringere alleanze pericolose (con la Russia di Putin, con la Cina di Xi) in chiave anti europeista. Poteva piacere o meno, ma aveva i voti per essere quello che era e interpretava il mandato ricevuto inviando segnali chiarissimi di dove avrebbe voluto condurre il Paese.
Il secondo Conte comincia il 5 settembre scorso dopo uno strappo violento con il vero regista del governo precedente, Matteo Salvini. A parte la bizzarria tutta italiana di mantenere lo stesso premier per due esecutivi molto diversi nella composizione (Cinquestelle più Pd dovrebbe essere uno schema antitetico a Cinquestelle più Lega), il varo del sessantaseiesimo esecutivo della Repubblica lascia immaginare uno spostamento dell’asse verso lidi più liberali e temperati. Non a caso, è proprio «discontinuità» la prima parola d’ordine che viene issata sul pennone. Ma la promessa di un cambiamento di registro, invocata come condizione indifferibile dalla forza subentrante, cioè il Pd, resta piuttosto inevasa, come irrisolti tutti i dossier bollenti (da Alitalia all’Ilva, dalla concessione autostradale ai rapporti con i Paesi «produttori di migranti») lasciati in eredità dalla disinvolta gestione precedente. A rendere ancora più immobile lo stallo, l’imprevisto flagello del virus, che è stato sì combattuto e contenuto meglio che altrove, ma che ha rimandato a data da destinarsi la messa a fuoco delle ragioni profonde che legittimano l’operato di un governo.
I Cinquestelle, che mantengono l’ormai irreale maggioranza conquistata nel lontanissimo 2018, sono un movimento che ha perduto, insieme a un’emorragia di consensi e anche di parlamentari, la forza ribellista delle origini e la confusionaria spinta anti-caste, quali e dovunque fossero, fingendo però che sia ancora la sua vera ragion d’essere. Quel che resta del grillismo, orfano dello spirito guida di Gianroberto Casaleggio e scomposto in fazioni sempre più distanti l’una dall’altra, non sembra destinato a serie possibilità di un bis alle prossime elezioni, quando saranno. Quindi gli ex trionfatori delle ultime Politiche traccheggiano, facendo la faccia feroce su qualche candidatura alle Regionali di settembre e soprattutto cercandosi un futuro, non avendo un passato.
Il Pd un passato ce l’ha eccome, e pure ingombrante. È anche l’ultimo partito che porta ancora il nome «partito» nell’insegna. Il suo segretario, Nicola Zingaretti, ha annunciato all’inizio dell’avventura, settembre 2019, che avrebbe messo al centro dell’agenda di Palazzo Chigi i temi propri di una grande forza storica di sinistra e che li avrebbe imposti, dal diritto a una maggiore eguaglianza sociale al dovere di un diverso approccio all’accoglienza, imprimendo da subito una sterzata brusca alla deriva di un populismo aggressivo che stava portando fuori rotta il Paese. L’ultimo atto che ha accettato di sottoscrivere, pochi giorni fa, è il rinnovo degli accordi con la Libia, con il rifinanziamento di una guardia costiera il cui compito principale è riacciuffare esseri umani in fuga e riportarli nei lager da cui sono fuggiti, in modo che si possa tornare a torturarli e che soprattutto la smettano di sbarcare nell’Unione europea. Ragion di Stato, comunque vigileremo, faremo cessare lo scandalo internazionale. Quando? Non subito, ma presto. Come per i decreti sicurezza marchiati Salvini. Come per il diritto di cittadinanza ai bambini «stranieri» nati o cresciuti in Italia. Non subito, ma presto, forse.
La risultante di questo doppio rinunciare, sia dai Cinquestelle sia dal Pd, a una parte fondamentale del proprio dna pur di non compromettere il fragilissimo equilibrio che permette al Conte 2 di restare in plancia di comando, è un reiterato compromesso al ribasso, che ci consegna il primo governo della storia Repubblicana a cui è davvero complicato appiccicare un’etichetta, che poi significa determinare un orizzonte politico che non sia la pura sopravvivenza per senso di responsabilità verso un Paese ferito e prostrato. Significa stabilire una gerarchia di valori e di priorità, scegliere con quali Paesi o mondi cercare alleanze e quali giudicare invece incompatibili. L’identità di una nazione, garantita dalla Costituzione ma declinata da chi al momento la guida, è la prima credenziale da offrire a qualsiasi vertice internazionale, specie ora che in gioco non c’è soltanto il nostro futuro prossimo ma quello della stessa Europa.
Il virus che ancora non ci ha lasciato ha un peso sociale ed economico incalcolabile. Il mare è ostile, reso ancora più agitato da leader e da lobby che confondono di proposito la solidarietà con la carità, in vista di buoni affari su cattivi esiti delle crisi altrui. La nave Italia va. Ma senza bandiera. Con tutti i rischi del caso, sarebbe ora di scegliersene una. Per i Cinquestelle, correntone Crimi-Di Maio, la tendenza spingerebbe più verso destra; per il Pd, un po’ più verso sinistra. Categorie forse desuete, ma mai come l’improbabile «giallo-rosa», che ricorda il fiocco ormai sbiadito appeso fuori dalla nursery alla nascita del secondo Conte.