la Repubblica, 21 luglio 2020
Conversazione con il fotografo Tony Vaccaro
«Ho avuto problemi respiratori, alla mia età sono cose che capitano, ma non credevo di essermi preso questo nuovo pericolo chiamato Covid 19». Ne parla con apprensione dopo che la sua degenza in ospedale si è risolta positivamente. «Ho iniziato con la febbre verso metà aprile, poi la tosse, perdevo peso e non avevo voglia di mangiare». Anche nel suo caso i primi passi di una diagnosi incerta: «Mi hanno portano per una visita urgente all’ospedale di Long Island City, ma dopo una flebo per tirarmi un po’ su sono stato dimesso e mandato a casa. Stavo meglio, ma non bene. Volevo uscire, andare al ristorante italiano vicino casa ma non avevo le forze».
Dopo un paio di giorni il quadro peggiora, la febbre si alza e il respiro diventa una fatica insopportabile. Una nuova urgente radiografia al torace chiarisce lo scenario: doppia polmonite da coronavirus, immediato il ricovero al Veteran Affairs Hospital. Solo tre giorni con respirazione autonoma senza aiuti, poi le dimissioni: sconfitta la minaccia globale che ha messo in ginocchio mezzo mondo. New York è ancora una città irreale, le strade che conosce da una vita semivuote o con tante persone «irriconoscibili a causa di questa strana mascherina che copre il volto e rende tutto così inquietante». Tony Vaccaro, classe 1922, racconta la sua nuova sfida come se volesse rassicurare: «Dopo l’ospedale il ritorno a casa è meraviglioso. Mi fa piacere guardare le persone, cercare lo sguardo dietro il volto coperto, immaginare cosa si nasconda dietro la mascherina. Quando esco di casa, con le dovute cautele, mi porto la mia inseparabile macchina fotografica. Sono anche questi scatti storici, speriamo irripetibili». La nostra conversazione via Whatsapp va avanti nel suo impeccabile italiano, con l’aiuto prezioso di Andrea Morelli che ha organizzato le ultime esposizioni di Tony in Italia. Un fotografo che ha attraversato un lungo tratto del secolo scorso. Aveva poco più di vent’anni quando scelse di imbarcarsi per le spiagge della Normandia nel giugno 1944. Un soldato, ragazzo di origine italiana nell’esercito degli Stati Uniti: fucile in una mano, macchina fotografica nell’altra, partecipa alla liberazione dell’Europa dall’oppressione nazista.
La passione per la fotografia lo accompagna, nelle radici di un’adolescenza in Molise terra di affetti e continui ritorni e poi nella scelta di entrare nella 83esima divisione della fanteria statunitense. Segue l’avanzata alleata attraverso Francia, Lussemburgo, Belgio, combatte nella battaglia delle Ardenne, partecipa alla conquista della Germania dalle rive del Reno fino alle porte di Berlino. Curioso del mondo e delle sue tante storie matura il rifiuto della guerra e della violenza. Non ha smesso di pensarci anche a distanza di decenni: «Che errore imperdonabile dividersi per nazioni, scontrarsi tra uomini e donne. L’umanità non dovrebbe avere limiti né perimetri. L’unica ragione che ci unisce tutti è quella del genere umano, in ogni angolo del pianeta».
E così il virus rende tutti uguali, deboli e inerti di fronte alla stessa minaccia: «Non siamo onnipotenti, dobbiamo proteggere il nostro spazio di vita, l’ambiente, le persone diverse che lo popolano. New York sembra ferita ma riuscirà a venirne fuori. Una nuova resurrezione della città e dei suoi abitanti. È avvenuto altre volte, le energie della grande mela sono diffuse. Ma ci vorrà attenzione e pazienza per tornare alla normalità di prima. Ho pensato alle reazioni dopo l’attacco alle Torri gemelle, alle prime fotografie che ho scattato quella mattina in mezzo ai volti increduli di chi mi stava attorno. Il tempo aiuta a lenire le ferite e a farci ritrovare l’ottimismo della vita di ogni giorno». La sua biografia è un itinerario senza soste. Dal mondo in fiamme e dall’Europa distrutta e conquistata si è dedicato a tanti artisti, intellettuali, uomini di spettacolo e protagonisti di un passato ormai lontano: da Picasso a Wright, dalla Magnani alla Loren, da Chaplin a De Sica, da Kennedy a Nixon, da Pollock alla Callas in un elenco difficile da contenere.
«Ho sempre cercato di fotografare chi aveva dato un contributo al bene dell’umanità; un modo per uscire dalla guerra, dalle sue macerie, dalle ferite che mi porto dentro. Faccio fatica a riconoscermi in un’America chiusa, egoista, lontana da chi ha più bisogno. Voglio continuare a pensare che il futuro sarà migliore». E così la sfida contro il virus diventa un nuovo tornante di un cammino che costruisce ponti e relazioni tra esseri umani e tra luoghi della terra: «Siamo rimasti in pochi della generazione della guerra, ma la memoria di quegli orrori non deve spegnersi né essere messa da parte. Vivo pensando alle esperienze che ho avuto, ai compagni che non ci sono più, alle paure di allora e al terrore degli attacchi terroristici. Alla fine penso che siamo più forti dell’odio e della violenza e che ogni passaggio, anche il più difficile e complicato, ha poi avuto delle risposte positive nella ricerca di una strada comune».
La nostalgia dell’Italia non lo abbandona mentre s’informa sugli esiti della pandemia e sui numeri dei contagi e dei caduti nelle regioni del Nord. Vorrebbe passare un’altra estate a Bonefro, tra ricordi, amici, immagini da consegnare a future memorie. «Difficile viaggiare alla mia età e di questi tempi, ma vedremo quando torneranno le condizioni per attraversare l’Atlantico. Per ora mi accontento di una pizza o di un piatto di pasta. So dove andare per trovare i sapori dell’Italia».