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 2020  luglio 19 Domenica calendario

Su "La figlia ideale" di Almudena Grandes (Guanda)

«La cronaca di un altro tipo di repressione, quella che costruì una prigione attorno al cuore degli spagnoli. Una storia dentro un manicomio reale, in un Paese diventato esso stesso un manicomio». Descrive così Almudena Grandes, al telefono con «la Lettura» da Cadice, in Andalusia, il nuovo romanzo La figlia ideale, che uscirà giovedì 23 in Italia da Guanda. Un romanzo avvolgente, fluviale, che fonde invenzione e fatti storici, letterario ma anche popolare, come quelli a cui la scrittrice spagnola ci ha abituato.

Il libro è il quinto della serie degli «Episodi di una guerra interminabile», inaugurata nel 2010 da Inés e l’allegria, che si svolge negli anni Quaranta, e destinata ad arrivare con il sesto capitolo agli anni Sessanta. Il periodo dal 1954 al 1956 è la cornice de La figlia ideale, nel quale Almudena Grandes ha l’intuizione di assumere un punto di vista originale, laterale e forse per questo ancora più autentico: narrare quella fase del Paese attraverso la malattia mentale, la vita negli ospedali psichiatrici sotto il franchismo. Anche perché, come nota il protagonista maschile, il medico progressista Germán Velázquez, «il manicomio femminile di Ciempozuelos era un modellino in scala della società a cui apparteneva, la miniatura patologica di un Paese malato».

In quella miniatura, a Ciempozuelos, a una trentina di chilometri da Madrid, si svolge così la maggior parte della trama, ispirata a un fatto di cronaca terribile e reale. Lì fu rinchiusa dal 1935, quando aveva 56 anni, alla morte, nel 1955 o ’56 (la data è incerta ma alla fine l’autrice assume che sia il 1956), Aurora Rodríguez Carballeira. Una donna ricca, colta, intelligente, che nel 1933 uccise a Madrid l’unica figlia Hildegart, bambina prodigio che a 8 anni parlava sei lingue e, poco più che adolescente, si laureò in Legge. Ammazzata diciottenne nel suo letto.

«Era da tanto tempo — ricostruisce Almudena Grandes — che pensavo alla figura di Aurora, controversa, contraddittoria. Mi ero imbattuta in lei già nel 1977 attraverso il film Mi hija Hildegart (“Mia figlia Hildegart”) del regista Fernando Fernán Gómez, a sua volta basato sul libro Aurora de sangre (“Aurora di sangue”, Mundo Actual) del giornalista Eduardo de Guzmán. Entrambi rappresentavano l’assassina come una madre dominante, possessiva, non come una persona malata, il che ha contribuito a confermarne un’immagine odiosa, invisa all’opinione pubblica. Già al processo, lo racconto nel romanzo, l’imputata si presentò con un abito a sottoveste e un mazzo di garofani rossi tra le braccia e l’accusa insinuò che volesse mostrarsi mezza nuda davanti al tribunale». «Mi ero vestita così per dimostrare che ero uno spirito libero (...) e ho portato i fiori in onore di Hilde», risponde quasi un secolo dopo l’Aurora-personaggio nel libro di Almudena Grandes.

La svolta per l’autrice, personale — perché quell’anno debutta con il romanzo erotico Le età di Lulù —, ma anche, tangenzialmente, legata alla storia di Aurora, arriva nel 1989. «All’epoca frequentavo molto le librerie per vedere come andava il mio esordio — spiega la scrittrice — e così mi imbattei in un breve testo dello psichiatra Guillermo Rendueles Olmedo (1948): El manuscrito encontrado de Ciempozuelos. Análisis de la historia clínica de Aurora Rodríguez (La Piqueta). Un resoconto del caso clinico della madre-assassina, basato su documenti ritrovati negli anni Settanta a Ciempozuelos, dove il medico era specializzando. «Rendueles — prosegue Almudena Grandes — fu un protagonista del rinnovamento psichiatrico e nel suo libro mise in evidenza con chiarezza che Aurora era affetta da una malattia mentale, nella fattispecie una grave forma di paranoia».

Dopo averlo letto, prosegue la scrittrice, «non si può odiarla. Mi colpì che questa signora autodidatta, anche lei precoce, avrebbe potuto essere il simbolo della nuova donna spagnola negli anni Trenta del XX secolo, e invece iniziò a credere di dovere rifondare la società e salvare il mondo. Una missione per la quale sua figlia era il principale strumento e contro cui, si era convinta, lottavano molti nemici, incluse le potenze internazionali. Fu così che, quando a Hildegart si presentò la possibilità di andare in Inghilterra, la madre pensò che le stessero portando via la ragazza e la uccise».

Malattia, ma non solo. All’inizio del romanzo uno dei personaggi più positivi, il padre di Germán, anche lui psichiatra, e di fama, che finirà incarcerato dai franchisti, si pronuncia su Aurora: «Sono convinto che le sue idee non siano meno responsabili della patologia da cui è affetta, perché l’eugenetica è un’ideologia criminale». «Il personaggio di Aurora — spiega Almudena Grandes — mi ha dato l’opportunità di parlare anche di questo: lei appoggiò davvero quella teoria, riteneva che si potesse decidere chi doveva vivere o morire, avere o non avere figli. Era progressista e femminista ma negli anni Trenta l’eugenetica veniva anche da sinistra. L’ideologo dell’eugenetica fascista in Spagna fu invece lo psichiatra Antonio Vallejo-Nájera (1889-1960), che appare anche nel romanzo. Già durante la guerra civile sostenne che il marxismo era un gene perverso connesso alla disabilità mentale e che andava estirpato, ammazzando chi ne era “portatore” o rubandogli i figli per affidarli alle famiglie cattoliche. In questo modo fornì una copertura teorica alla repressione della dittatura».

Attorno a Donna Aurora, Almudena Grandes intesse le fila romanzesche: lo psichiatra Germán Velázquez, fuggito in Svizzera durante la guerra civile, tornato in Spagna nel 1954, a 33 anni, per sperimentare un nuovo farmaco, è un personaggio d’invenzione che prende in cura l’assassina. E negli spazi dell’ospedale si muove un’altra figura centrale, l’infermiera ausiliaria poco più che ventenne María Castejón. Nipote del giardiniere di Ciempozuelos, lì è cresciuta e continua a vivere. E lì, da piccola, proprio grazie alle lezioni di Aurora, aveva imparato a leggere e sognare su un atlante il mondo fuori.

Adesso, invece, negli anni Cinquanta, nota ancora Germán, la notte, anche se le persiane vengono chiuse, «le madri chiedono ai figli, e soprattutto alle figlie, di spegnere la luce perché qualcuno non li veda e scopra che amano leggere. Parlare, leggere libri, specie se tradotti, comprare “La Codorniz” (rivista umoristica oggetto della censura franchista, ndr) o baciarsi sulla bocca alla luce del sole anche da sposati sono attività sospette, che possono attirare l’attenzione di chi ha conoscenze in polizia. (...) Se il nostro Paese fosse un essere umano, lo avremmo ricoverato a Ciempozuelos da anni».

Una delle novità del romanzo è che Almudena Grandes non usa un narratore esterno ma tre voci in prima persona che si alternano, ciascuna a suo modo straniata e straniante: quelle di Germán, María e della stessa Aurora. «È stata la parte più difficile — confessa la scrittrice —, finora avevo usato la narrazione in prima persona una sola volta e per un solo protagonista ne Il ragazzo che leggeva Verne (2012). Tuttavia, far raccontare la Spagna da chi ne era stato a lungo fuori e da chi, chiuso in un ospedale, ne è in un certo senso ugualmente estraneo, mi è sembrato restituisse un punto di vista più distaccato. Uno sguardo realisticamente meno assuefatto alla cappa asfissiante di silenzio e paura calata sul Paese, dove franchismo, machismo, cattolicesimo conservatore erano tutt’uno».

Gli ultimi romanzi di Almudena Grandes, La figlia ideale e I pazienti del dottor García (2018), propongono entrambi protagonisti medici. «Non l’ho fatto apposta, ma c’è una spiegazione: la scienza dà fastidio alla dittature perché esprime una verità che non si può manipolare. E anche oggi, nella realtà sconvolta dal Covid-19, i regimi più autoritari nascondono i dati».

L’autrice ha vissuto a Madrid il suo lockdown e solo da poco ha potuto raggiungere Cadice. Un’esperienza che le ha ispirato un altro romanzo e l’ha spinta a prendersi una pausa dalla serie storica. «Il nuovo libro è legato alla pandemia. Al centro ci sono una dittatura e la resistenza a questa dittatura, ma in un futuro prossimo. Ho già scritto un’ottantina di pagine». Dalla fiction alla realtà, non sfugge all’autrice che povertà e paura, drammaticamente aggravate dal Covid, «potrebbero rappresentare ancora oggi un pericolo per la democrazia. Perciò è importante che l’Ue non lasci affondare i Paesi del Sud. Fiducia in un’Europa unita, egualitaria e progressista non ne ho più, ma Germania e Olanda dovrebbero semplicemente capire che crollerebbero anche loro».

È soddisfatta invece del governo di Pedro Sánchez: «Ci sono state incertezze, dovute a un pericolo del tutto nuovo, ma si è fatto quello che si è potuto. E, soprattutto, si sono prese subito misure sociali che non erano mai state adottate, ad esempio il reddito minimo di sussistenza». I principali partiti al governo sono i socialisti e Podemos. «In momenti diversi li ho votati entrambi. Ci sono state fasi in cui non avrei scelto il Psoe, ma apprezzo Sánchez e mi piaceva Zapatero». La Spagna tuttavia, dice, «è ancora una democrazia fragile e divisa: l’opposizione ha soffiato contro l’unità pure in questo momento, strumentalizzando persino il passato. In pieno lockdown, ad esempio, è stata celebrata una messa a Granada e la polizia è intervenuta. Il motivo era solo sanitario ma l’opposizione ha evocato gli incendi contro le chiese durante la guerra civile».

Centrale, nel romanzo, è anche la questione femminile: le internate sono trascurate non solo perché malate, ma perché donne. «Oggi siamo ben oltre tutto questo — nota l’autrice —, la società e la morale sono cambiate come il giorno e la notte. Ma per le lavoratrici, ad esempio, resta il soffitto di cristallo. Anche per questo io mi definisco ancora una femminista». Femminismo, dice, «oggi e sempre, è la lotta delle donne per l’uguaglianza. Abbiamo capito che quella giuridica non equivale a quella reale, per questo la lotta deve continuare».