La Stampa, 19 luglio 2020
Intervista a Steve Hackett su "A Genesis in My Bed" (Rizzoli Lizard)
Risponde dalla sua casa di Londra, alla fine di una giornata impegnativa: «Oggi ho lavorato in studio, sto incidendo un album acustico, uno rock, ne uscirà uno live e il mio libro, quattro progetti diversi. Non potendo viaggiare per il lockdown mi sono buttato sul lavoro ed è uno dei periodi più produttivi della mia vita». Il settantenne Steve Hackett non mostra segni di cedimento dopo 25 album solisti pubblicati dal 1975 ad oggi, anche se il Mondo lo considera soprattutto per quei folgoranti sette anni, dal 1971 al 1977, in cui fu il chitarrista della formazione più storica dei Genesis suonando in sei album epici, da Nursery Cryme a Wind & Wuthering. Un periodo che Hackett fa rivivere sui palchi in concerti dedicati a quel repertorio e che racconta oggi nella autobiografia A Genesis In My Bed (Rizzoli Lizard).
Una storia che comincia nella Londra post bellica, tetra e crepuscolare in cui cresce Steve, che vive nel 1955 la rivoluzione del rock’n’roll. «Il primo vero cambiamento sociale che portò il rock’n’roll fu di introdurre la musica nera ai bianchi, mettendo al centro musicisti che fino a quel momento venivano considerati marginali e che sarebbero diventati eroi per Beatles e Rolling Stones. Il secondo momento fondamentale fu quando i Beatles incorporarono la musica indiana, il rock’n’roll incontrava le orchestre e i “raga”, l’Oriente si avvicinava all’Occidente. Questo non influenzò solo la musica ma anche la moda, i colori e il taglio dei vestiti, e arrivò veramente a tutti. Vennero abbattuti i pregiudizi, quattro ragazzi della working class di Liverpool intrattenevano la famiglia Reale inglese e parlavano al Mondo. I giullari di corte erano diventati protagonisti».
La Swinging London degli Anni 60 in cui un giovane commesso del Kensington Market di nome Freddie Mercury vende a Steve una giacca di pelle. Ma insieme al fascino del rock’n’roll una grande influenza arriva per lui anche dalla musica classica. «Sono cresciuto ascoltando musica barocca e romantica insieme al blues. Il primo disco che ho comprato aveva il Bolero di Ravel su un lato e L’Apprendista Stregone di Paul Dukas sull’altro, e ho appena inciso una versione orchestrale di quel brano con Alan Parsons».
Lei racconta di quando, incrociando Mick Jagger in King’s Road, sente la necessità di entrare in una band.
«Quello era il momento giusto, perchè prima dei Beatles e dei Rolling Stones, negli anni ’50, i gruppi suonavano solo musica strumentale, lo stile western tipo la sigla del telefilm “Bonanza”. Musica da cowboy: Duane Eddy, The Ventures, The Surfaris. I chitarristi suonavano in quello stile “twangy” che ora Quentin Tarantino ha riscoperto nei i suoi film».
Ricorda i King Crimson tra le sue band preferite del periodo.
«Robert Fripp fu intelligente a organizzare attorno a sè un gruppo di musicisti per un preciso progetto multi-genere. C’erano così tanti stili diversi in loro da dare l’impressione di trovarsi di fronte a una forma di intelligenza superiore. C’era il jazz derivato da Ornette Coleman e John Coltrane, la musica classica e epica di Epitaph e In The Court Of The Crimson King, e la parte più lirica con I Talk To The Wind e Moonchild, tutto nel loro primo album. Credo sia stata una grande influenza per i Genesis ascoltare un disco con tanti rifermenti musicali ma così essenzialmente europeo. Per la prima volta non si guardava più all’America come influenza principale».
E’ questa la definizione di “progressive rock”?
«Per me il progressive rock nasce dai Beatles. Se prendiamo dischi come Rubber Soul, Revolver, Sgt. Pepper e Magical Mistery Tour si capisce che cominciavano a sperimentare con strumenti diversi, come il bouzouki greco in Girl, e influenze classiche. Le tastiere di In My Life alludono a Bach, in Eleanor Rigby c’è la sezione di archi. Questo ispirò gruppi come Moody Blues, Procol Harum, King Crimson e poi tutto il progressive. Il momento che cambia tutto nella sua carriera è un annuncio che lei mette su Melody Maker: “Chitarrista cerca musicisti aperti e decisi ad andare oltre lo stagno delle forme musicali esistenti».
Una frase che convince Peter Gabriel a chiamarla. Quando ha capito che i Genesis sarebbero stati la sua band?
«Non conoscevo la loro musica, ma dopo la telefonata di Peter ascoltai l’album Trespass e al provino mi chiesero di suonare la loro canzone Stagnation, il che rivelava già una certa sincronia tra noi per l’uso del termine. Credo che a loro non servisse la mia anima blues, ma la parte più sperimentale, atonale e dissonante del mio stile li convinse».
Come si trovò con i nuovi compagni, che avevano un’estrazione sociale completamente diversa dalla sua?
«Loro venivano da una scuola elitaria, la Charterhouse, ma a quanto mi raccontavano quello era un ambiente violento e competitivo dove non si trovavano bene. Non erano felici, era un sistema scolastico coloniale, imperialista, che formava personalità dominanti, ragazzi destinati a diventare ministri, capitani di industria, leader. Loro si sentivano brutalizzati e in un certo senso quella scuola diede loro qualcosa contro cui combattere».
Se era una scuola che formava leader, chi comandava nella band?
«C’era un senso di competizione ma anche di collaborazione, e credo che questo equilibrio ci abbia permesso di creare della bellissima musica».
Eravate giovanissimi. Quei quattro capolavori: Nursery Cryme (1971), Foxtrot (1972), Selling England By The Pound (1973) e The Lamb Lies Down On Broadway (1974) li avete pensati, scritti, incisi nel giro di quattro anni mentre avevate tra i 21 e i 24 anni di età e nel frattempo giravate il mondo per concerti sempre più elaborati e scenografici. Oggi una cosa del genere non sarebbe possibile.
«Era un periodo in cui le case discografiche erano più interessate agli album che al successo delle canzoni alla radio. Anzi, se facevi un singolo di successo perdevi il rispetto dei fan. Band come Led Zeppelin o Pink Floyd conquistavano il successo con i concerti e gli album, non certo con i singoli. Negli anni ’80 sarebbe cambiato tutto, sarebbe arrivata MTV e gli album sarebbero diventati collezioni di potenziali singoli da mettere nei video».
Però i Genesis pubblicarono i loro best seller negli anni ’80 e conquistarono gli stadi con il successo di singoli e video.
«E’ vero, ma oggi i dischi dei Genesis che continuano a vendere sono quelli degli anni ’70, della formazione storica a cinque con Peter Gabriel, mentre credo che gli album degli anni ’80 non siano interessanti per le nuove generazioni. Puoi diventare come i Take That e conquistare il pubblico femminile, ma il vero pubblico dei Genesis è sempre stato di studenti e musicisti. Nel 1973 John Lennon disse che ascoltava i Genesis, e una dichiarazione del genere da uno degli autori più importanti della storia fa capire la statura della band in quel periodo».
Un periodo in cui l’Italia fu uno dei primi paesi a dare ai Genesis il successo che meritavano. La prima volta che vi ho visti dal vivo fu nell’Agosto del 1972 al Teatro Alcione di Genova. Cosa si ricorda di quel primo tour italiano?
«Fu meraviglioso. Suonavamo nei posti più diversi: un club come il Piper di Roma ma anche palasport, campi sportivi e teatri tradizionali come l’Alcione, e ci trovavamo di fronte un pubblico che non solo era più numeroso che in Inghilterra, ma capiva meglio la nostra musica. L’Italia fu il primo paese ad abbracciare i Genesis nel vero senso della parola, sarò sempre grato all’Italia, lì ho molti amici e ogni volta che ci sono tornato, con tutte le band che ho avuto fino ad oggi, la sensazione è sempre di tornare a casa. Tutti i miei musicisti amano suonarci e godersi il vostro modo di vivere».
In quel primo tour italiano ci fu un concerto, quello di Cuorgnè, in provincia di Torino, il 13 Aprile 1972, al locale Le Due Rotonde, entrato nella mitologia dei Genesis perchè fu l’unico nella storia della band in cui Tony Banks, il tastierista, non suonò perchè si era sentito male. Si ricorda di quella sera?
«Certo che mi ricordo. Tony si era ammalato per aver mangiato qualcosa di avariato, cose che possono capitare. Lui ha dedicato la vita ai Genesis e ci ha sempre tenuto molto ai concerti, per non salire sul palco voleva dire che stava proprio male, poverino, ma questa è la fragilità umana. Quella sera dovemmo cercare di non fare sentire la sua mancanza, privilegiando i brani chitarristici e facendo un concerto senza dubbio più breve».
Nel libro lei dice che il periodo di Selling England By The Pound è stato il suo più felice e che l’assolo di Firth Of Fifth è considerato il momento più alto della sua carriera con la band.
«E’ senz’altro il più conosciuto. Se si chiede a un musicista probabilmente risponderà che il mio assolo migliore è quello in Dancing With The Moonlit Knight, sempre dallo stesso album, perchè ha momenti “pirotecnici” e uso tecniche chitarristiche come tapping e sweep picking. Quello di Firth Of Fifth è molto amato perchè è lungo, lirico, ha una melodia che resta in mente e definisce un certo stile chitarristico, è malinconico ma anche trionfale, e con quella nota sostenuta fa pensare ad un gabbiano che vola sul mare. La band acconsentì ad ospitare quell’assolo così lungo nella canzone, ho dei bellissimi ricordi di quando lo registrammo, e quello è diventato il momento che meglio definisce il mio modo di suonare».
Quale era la canzone più difficile da suonare?
«Quasi tutte le canzoni dei Genesis erano complicate, e in concerto bisognava essere sempre concentrati. Era musica molto visuale, e come in un film cambiano le scene così cambiavano ritmi e arrangiamenti all’interno della stessa canzone e dovevi essere pronto. Ancora oggi un brano come Dancing With The Moonlit Knight è molto impegnativo da suonare».
Genesis live 1974
Quale era il processo di scrittura di brani così complessi?
«Qualcuno arrivava con una idea, poi la canzone veniva estesa per incorporare le idee degli altri. Ad esempio per Can Utility And The Coastliners io ho scritto accordi, melodia e parti vocali. Su quelle il gruppo ha improvvisato gli altri movimenti. Ho scritto Horizons come prologo alla suite Supper’s Ready che era un lavoro corale. In A Trick Of The Tail c’è Dance On A Volcano dove ho scritto il finale, così come il tema di Los Endos. In Entangled ho scritto le parti melodiche poi Tony l’ha completata».
Nella parte del libro dedicata alla registrazione di The Lamb Lies Down On Broadway nel cottage di Headley Grange, dove lavorarono anche i Led Zeppelin, parla di visioni spiritiche e fantasmi.
«I Led Zeppelin erano sicuri che quella fosse una casa stregata, e in effetti di notte si sentivano dei suoni strani, che non ti facevano dormire. Quella era stata una “work house”, cioè un luogo popolato da uomini che non avevano niente e cercavano lavoro come manovali. Lavori durissimi che spesso portavano alla morte loro o dei loro figli che lì dentro vivevano in una estrema povertà. Nell’era Vittoriana c’era l’ idea che essere poveri volesse dire essere peccatori. Un terribile pregiudizio sociale. Una casa del genere aveva vissuto enormi sofferenze. Un giorno mentre mi lavavo le mani l’intero pavimento del bagno sprofondò dietro di me. Jimmy Page disse di avere visto apparire una figura umana in cima alle scale nella stessa stanza dove io dormivo. E poi quando eravamo lì sapevamo che quello sarebbe stato l’ultimo album con Peter, che ci aveva già annunciato di volere lasciare la band, e questo gettava un’ombra sinistra su tutta la registrazione. Era difficile fare un disco sapendo che il tuo cantante, la persona che mi aveva fatto entrare nella band, il motivatore principale del gruppo, quello che era sempre al telefono per gestire le attività dei Genesis, improvvisamente aveva deciso di lasciarti. Stavo perdendo quella persona, quell’amico, e non capivo perchè. Penso ancora oggi che avremmo dovuto prenderci del tempo per fare dei dischi solisti e poi tornare insieme. Peter voleva scrivere un film per Willim Friedkin, il regista dell’Esorcista, e non voleva sentirsi responsabile dello scioglimento della band dunque se ne andò lui. Mantenne la parola, finì l’album, fece tutti i concerti del tour, noi non volevamo lasciarlo andare ma lui lo fece, e questo diede l’opportunità a Phil Collins di diventare il cantante».
Il primo album con Collins alla voce è A Trick Of The Tail, del quale lei scrive “Contrariamente a quello che si è detto io persi solo un giorno di prove”. C’è chi la accusò di assenteismo?
«Ho letto che io sarei stato assente per tutta la registrazione di Dance On A Volcano, ma basta ascoltare la canzone per capire che c’ero. Ammetto di essere arrivato in ritardo una volta ma certo non stavo ignorando la band per la mia carriera solista che stava cominciando, anzi».
I suoi compagni le vietarono di incidere album solisti finchè suonava con i Genesis.
«Mike e Phil avevano suonato nel mio album Voyage Of The Acolyte, Mike stava per fare un album con Anthony Phillips (chitarrista dei Genesis prima di Hackett, ndr), Phil aveva il suo gruppo Brand X, l’unico che non aveva progetti fuori dalla band era Tony. Forse se il mio album non fosse stato un successo sarebbe stato più semplice, ma a loro non piaceva che io avessi successo fuori dai Genesis. I progetti di ognuno dovevano rimanere di nicchia. Io invece dovevo provare a me stesso di poter scrivere e funzionare in autonomia per diventare un autore migliore. Non volevo chiedere il permesso a qualcuno, mentre nei Genesis dovevo farlo ogni volta che proponevo una canzone».
I Genesis hanno sempre avuto una immagine da bravi ragazzi intellettuali. Si diceva “I Led Zeppelin si divertono a distruggere le camere degli alberghi, mentre se i Genesis rompono una tazzina da caffè chiedono scusa”. Però il titolo del suo libro “A Genesis In My Bed” viene da quello che le disse una groupie: “C’è un Genesis nel mio letto!”. Anche voi dunque avete avuto i vostri momenti di sex drugs & rock’n’roll.
«Ogni musicista rock che scriva la sua autobiografia evitando di menzionare sesso e droga dimostrerebbe di evitare argomenti che sono ovviamente sotto gli occhi di tutti. Certo, è stata una parte della mia vita, ma fortunatamente non tutta la mia storia si esaurisce lì. La parte più importante della mia esperienza on the road è stata suonare in posti del mondo che non avevano mai sentito nominare i Genesis ma forse neanche Elvis Presley, e ho voluto scrivere un libro che possa interessare anche a chi non ama il rock, che racconta la vita di un musicista senza volere per forza definirla sensazionale. Questa è stata la parte più difficile, le autobiografie rock parlano solo di eccessi: prendi tutte le droghe e tutte le donne che puoi, suona più forte e più veloce di tutti e poi muori. A me interessava parlare di amore, sopravvivenza, spiritualità».
L’avvento del punk è descritto nel suo libro come un momento drammatico.
«Uno dei risultati del punk fu la violenza ai concerti, certi club dove andavo spesso improvvisamente diventarono infrequentabili. Era la fine di “Peace & Love”, era tutto cambiato. L’ignoranza era considerata una virtù, in Inghilterra la disoccupazione aumentava e con essa la rabbia giovanile, nessuno scriveva più delle belle canzoni e la stampa musicale inglese se la prendeva con chiunque avesse un minimo di successo. Io diventai uno dei nemici della stampa, ma faceva parte del gioco. Se vuoi andare avanti nel tempo devi sapere sopportare anche questi momenti sapendo che poi passano. Infatti sono ancora qui».
L’ultima canzone che lei ha inciso con i Genesis è inside & Out, dall’ EP Spot The Pigeon, che è anche l’ultima grande canzone dei Genesis “classici” prima di passare all’epoca pop (di lì a poco sarebbe uscito il singolo Follow You Follow Me e sarebbe cambiata la loro storia). Il brano termina con una potente parte di chitarra che sfuma. Cosa sarebbe successo a quella chitarra se la canzone non fosse sfumata, se lei avesse continuato a suonare con la band?
«Era una canzone che doveva andare sull’album Wind & Wuthering e credo ancora che sia più forte di alcune canzoni di quel disco. Ancora oggi la eseguo dal vivo e per farlo le ho costruito un finale, ma era stata scritta per finire sfumando, come la mia storia con la band».
Cosa successe quando i Genesis decisero di riformarsi per il tour del 2007?
«Loro mi contattarono, mi chiesero se avrei fatto il tour e io risposi di si. Poi decisero di rimanere in tre e dichiararono “Steve voleva esserci ma lo abbiamo lasciato fuori”. Ma furono loro a chiamarmi. Io sono sempre disponibile. Siamo ancora amici, ci parliamo, e auguro loro tutto il successo possibile. Ognuno rispetta il lavoro degli altri e questa è la cosa più importante».
Pochi mesi fa, prima del lockdown, i Genesis hanno annunciato una nuova tournee mentre lei stava portando in giro un concerto ispirato all’album live Seconds Out.
«Io stavo già facendo il tour quando loro hanno annunciato le loro date, negli stessi posti dove avevo già suonato io. Se il loro tour si farà, alla fine dell’emergenza Covid, sarà chiaro che loro celebrano i Genesis degli anni ’80 e io quelli dei ’70, due ere distinte nella storia della band».
Quindi oggi chi è più Genesis, lei o loro?
«E’ generoso da parte sua chiedermelo, esiste una importante eredità musicale di quelle canzoni degli anni ’70, e lo stesso Tony Banks mi ha detto “Tu stai tenendo viva quella eredità».
Mettiamola così: c’è l’epoca dei Genesis amati da MTV, e c’è quella dei Genesis apprezzati da John Lennon, ognuno può trarre le sue conclusioni”. Il libro termina con la frase “Finalmente sono a casa”. Lei si sente davvero arrivato ad un traguardo di serenità?
«Si certamente, sono felice con mia moglie Jo, l’amore della mia vita, è un momento molto bello e produttivo e voglio tornare al più presto a fare concerti».