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 2020  luglio 20 Lunedì calendario

Alla moda serve un piano indistriale

Pochi Paesi al mondo sono posizionati come l’Italia in modo da essere colpiti dalla recessione-Covid in tutti i settori più dinamici, dalla manifattura al turismo. E pochi settori sono investiti in pieno dalle conseguenze dello tsunami che ha sconvolto il mondo nel 2020 come uno dei più iconici del «made in Italy», la moda e il lusso. In questo il coronavirus è davvero una tempesta perfetta, che scuote dalle fondamenta uno dei pilastri del sistema produttivo del Paese. A una seconda occhiata però emerge l’altra caratteristica della dolorosa trasformazione impressa da questi mesi: la pandemia si sta rivelando un acceleratore esponenziale delle tendenze in atto da prima, capace di decretare vincenti e perdenti fra modelli produttivi, modelli distributivi e soprattutto fra imprese e classi di occupati.
È questa in fondo la lezione che emerge fra le righe del rapporto su «Abbigliamento e accessori nello scenario Covid-19» che, con un impegno congiunto, Cassa depositi e prestiti, EY e la Luiss Business School stanno pubblicando. Il quadro che ne emerge per il settore moda e lusso in Italia è quello di un 2020 catastrofico. E non si tratta di un disastro di piccole dimensioni, data la natura di questo settore. Con un fatturato di circa 80 miliardi e quasi mezzo milione di addetti, la filiera della moda pesava nel 2019 per circa 8,5% del fatturato e per il 12,5% della manifattura italiana. La capacità produttiva in questo campo va ben oltre la forza dei marchi italiani, perché quasi due terzi del valore aggiunto della moda di qualità nel mondo viene dalla subfornitura italiana e il Paese da solo rappresenta poco meno di quattro quinti di tutte le esportazioni di tessile dell’Unione europea. Il 70% del «made in Italy» della moda si posiziona chiaramente nell’alto di gamma. Il Paese dunque è entrata in questa crisi con molti punti di forza, anche se fra questi non c’era la capacità di sviluppare nel Paese nessuna delle grandi holding industriali capaci di riunire molti marchi del lusso- da Lvmh, a Kering a Richemond - che stanno dominando sempre di più il mercato globale con la loro capacità di stare sempre alla frontiera dell’innovazione in tutti i segmenti: non solo l’offerta di prodotti, ma anche l’uso dei dati e delle tecnologie per arrivare ai clienti in tutto il mondo. L’Italia è arrivata comunque alla vigilia della crisi dopo anni positivi, evidenti per esempio in un aumento della produttività delle imprese del settore quasi triplo per la filiera moda e lusso rispetto alla media della manifattura. La qualità e l’alto valore aggiunto tipico del segmento più forte della filiera aveva persino permesso casi di rilocalizzazione dall’estero in Italia delle produzioni di alcuni marchi: Prada, Ferragamo, Piquadro, Benetton e Falconeri fra gli altri.


La caduta e le attese
Poi è arrivata la tempesta perfetta. Oggi purtroppo quello di abbigliamento e accessori è il settore produttivo in assoluto più duramente colpito dopo il turismo e l’ospitalità. Il fatturato del lusso nel mondo era salito dai 167 miliardi di euro del 2010 ai 281 del 2019, ma ora può tornare indietro di cinque o anche di dieci anni (vedi grafico). In Italia su tessile, abbigliamento, pelle e accessori il crollo della produzione in aprile è stato dell’81% su base annua; nello stesso mese le vendite al dettaglio su abbigliamento e pellicceria sono scese dell’83% rispetto all’anno prima. Ha senz’altro pesato lo stop del turismo, con l’interruzione delle vendite a cittadini cinesi, giapponesi o del Golfo negli store delle grandi città italiane. Si sono trovati alla paralisi 130 mila negozi con 300 mila addetti. Andrea Montanino, capoeconomista di Cassa depositi e prestiti, è convinto che i flussi di vendite per i canali tradizionali potranno gradualmente riattivarsi con il superamento della pandemia: «Il settore della moda e del lusso è ben posizionato sull’estero - dice -. Quando ripartirà la domanda globale, potrà dare delle soddisfazioni alle piccole imprese italiane». Già da maggio si nota in effetti che il mercato cinese è ripartito per il «made in Italy» e in giugno i marchi che hanno saputo offrire nuove collezioni ad hoc hanno registrato numeri, a livello globale, anche superiori a quelli dello stesso mese del 2019.


La via digitale
Dunque, dopo il crollo di primavera, si iniziano a vedere le prime luci in fondo al tunnel. Ma pensare che Covid-19 non lasci segni permanenti sull’industria italiana della moda sarebbe un’illusione. Non solo perché - come osserva Stefania Radoccia, responsabile dell’area mercati per Ey nel Mediterraneo - l’aumento della disoccupazione per il settore abbigliamento e accessori nel 2020 sarà compreso tra il 30,4% e il 38,3%. «Per mitigare questo rischio, le aziende dovranno investire nell’aggiornamento e nel rafforzamento delle competenze degli addetti», dice Radoccia.
Resta però un punto di fondo: la crisi Covid anche nella moda e nel lusso sta diventando un grande punto di biforcazione dei destini e accelerazione delle tendenze. Paolo Boccardelli, direttore della Luiss Business School, si concentra su questo punto: «Le imprese italiane della moda e del lusso dovranno accelerare sui canali digitali», osserva, perché questi ultimi «saranno sempre più centrali nelle strategie». Questo in realtà è già il presente, la sentenza emessa dalla recessione. Il rapporto Cdp-Ey-Luiss mostra per esempio che le aziende che si appoggiano di più sui canali digitali si sono dimostrate più resilienti e proprio questa constatazione implica, potenzialmente, serie ricadute per l’occupazione. La spagnola Inditex, la holding che controlla Zara, in primavera ha visto un forte rimbalzo del suo titolo in borsa non appena ha annunciato una restrizione dei canali di vendita fisici per puntare di più sul digitale. Anche per la moda italiana dopo Covid la ripartenza non sarà un cercare di tornare al mondo di prima, ma obbligherà a guardare avanti sui problemi di ieri: crescita dimensionale delle imprese, innovazione (anche) nei materiali all’insegna della sostenibilità, uso dei canali digitali e dei dati.
È un processo che potrebbe espellere dal sistema decine di migliaia dei circa 500 mila occupati del «made in Italy» della moda attuali. Di qui l’esigenza, anche delle imprese, di pensare a programmi di formazione che non lascino indietro queste persone e permettano loro di aggiornarsi alle esigenze del mercato dopo Covid.