L’Economia, 20 luglio 2020
Lezioni dalla tragedia del ponte Morandi
Lezioni da una tragedia. A quasi due anni dal crollo del Ponte Morandi a Genova, quando ci si appresta a inaugurare il nuovo viadotto progettato da Renzo Piano e costruito da Fincantieri e We Build, qualcosa nonostante tutto abbiamo imparato. Speriamo che la lezione venga appresa. Tutta. Ma qualche dubbio resta. Non è questione di prendersela con il governo attuale o con i precedenti (la convenzione con Autostrade è del 2008), né di scagliarsi come è stato fatto con giustizialismo vendicativo contro gli «avvoltoi veneti», Benetton e soci, né riproporre la sterile contrapposizione fra lo Stato buono e i privati avidi. Guardiamo al compromesso, raggiunto nella nottata fra martedì 14 e mercoledì 15 luglio, con il dovuto distacco e la necessaria freddezza oggettiva. Distacco e freddezza che non sono però tollerabili nei confronti della memoria delle 43 vittime, dei sentimenti delle loro famiglie e di una città ancora ferita. Chi ha strumentalizzato per fini propri, politici e aziendali, la tragedia, non ha certo rispettato il dolore di una comunità. Anzi. La prima, naturale, considerazione è che la giustizia si ottiene nei processi, non altrove. Lo scalpo autostradale dei Benetton esibito dai grillini, e non solo da loro, susciterà consenso popolare ma non è una forma di giustizia perseguita per altre vie, brandendo la revoca della concessione in chiave punitiva. «Abbiamo estromesso i Benetton dalla gestione di un bene che ora ritorna agli italiani» ha detto lo sventurato ex ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, gridando vittoria. Ma allora come la mettiamo con Fiumicino, il principale aeroporto italiano, gestito da Atlantia che — come ha ricordato Paola De Micheli, succeduta a Toninelli — è considerato tra i migliori e più efficienti al mondo? I Benetton sono diavoli a Genova e angeli a Roma?
In uno Stato di diritto le responsabilità sono personali, non aziendali. Un azionista paga per le sue manchevolezze, un dirigente per le sue decisioni o omissioni. Lavoratori, tecnici, fornitori, i cosiddetti stakeholder, non hanno alcuna colpa. Se il governo avesse perseverato nella pericolosa idea della revoca o del commissariamento avrebbero pagato un prezzo elevato, in termini di lavoro perso e fallimenti a catena all’istinto della «giustizia per altre vie». Senza poter chiedere a nessuno un risarcimento. Vittime anche loro. I monopolii sono forieri di comportamenti devianti. La concorrenza nelle autostrade semplicemente non esiste. E se il concessionario, come è accaduto per Autostrade, diventa grande, potente, in grado di influenzare la politica (che firma la convenzione e decide le tariffe) facilmente sfugge all’autorità vigilante. Anzi, il controllato «cattura» il controllore. I contratti sono secretati. Gli azionisti si abituano a rendimenti elevati; i manager a bonus legati ai profitti non agli investimenti cui è legata la sicurezza degli utenti.
Borsa e speculazioni
E poi c’è il mercato azionario che in Italia è sempre accompagnato da pregiudizi e visioni distorte come fosse un club esclusivo di miliardari e non un luogo dove si scambiano titoli e affluisce il risparmio di tutti. Direttamente o indirettamente. Una diversa e più evoluta cultura finanziaria avrebbe sconsigliato i toni forti e barricaderi. Anche allo stesso presidente del Consiglio che ha parlato fino all’ultimo di revoca inevitabile. Il titolo Atlantia ha perso in un giorno (lunedì 13) il 15,19% per poi recuperare, nella seduta di mercoledì 15, il 26,65 per cento. Dubitiamo che i piccoli risparmiatori abbiano approfittato dell’ampia volatilità indotta dall’atteggiamento ondivago dell’esecutivo. Gli speculatori di professione sì. Non osiamo pensare a fenomeni di insider trading. Nello stesso giorno le obbligazioni Autostrade Tf 1,875 per cento hanno fatto un balzo di prezzo del 12,8% con volumi ben maggiori dell’azionario. Anche in questo caso oggetto dell’attenzione degli operatori professionali non della clientela retail. La scelta di non procedere alla revoca è stata comunque positiva e ha scongiurato effetti a catena certamente sottovalutati da molti dichiaratori di professione. Un fallimento della società — come ha scritto Morya Longo sul Sole 24 Ore — avrebbe prodotto una reazione a catena di «magnitudo globale». Non a caso Angela Merkel, dopo aver incontrato a Mesenberg Conte, si è detta curiosa di sapere come sarebbe finita la vicenda. Atlantia ha grandi soci internazionali, tra cui il gigante tedesco delle assicurazioni Allianz. Il governo di Pechino si è mosso a tutela di un altro investitore, il fondo statale cinese Silk Road. Poi ci sono i francesi di Edf, gli olandesi di Dif. Nove bond emessi da Autostrade sono stati acquistati dalla Banca centrale europea.
Investitori e mercati
Ora nel momento in cui si annuncia l’ingresso nell’azionariato di Autostrade dello Stato, attraverso la Cassa depositi e prestiti, si prefigura una scissione da Atlantia e dagli odiati Benetton e la successiva apertura a nuovi soci privati, bisognerà convincerli che si tratta di un buon investimento. Non soggetto agli umori e alle emozioni, ma solo ai contratti, secondo il principio pacta sunt servanda. La sciagurata dichiarazione del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, secondo il quale il governo ha sottratto un bene pubblico alle «logiche del mercato» non è incoraggiante. Soprattutto per chi volesse partecipare al capitale di quella che è stata frettolosamente definita una «public company». E dovrà essere un buon investimento anche per Cdp che raccoglie il risparmio postale degli italiani, soprattutto di quelli più deboli. Vanno tutelati al massimo. Senza correre il rischio di esporli per una nuova avventura dello Stato imprenditore disposto anche a perdere il proprio capitale pur di ottenere consenso e, in questo caso, portare a termine un «regolamento politico» della questione. Fabrizio Palermo, amministratore delegato di Cdp, è chiaro su un aspetto. La Cassa è un soggetto privato. Amministra risorse private. È un investitore di lungo periodo. Il finanziamento delle infrastrutture, come ha ricordato il presidente Giovanni Gorno Tempini, è una sua missione storica. Si propone di agire con logica industriale, come sostiene di fare in Ansaldo Energia e in Trevi. Dopo essere entrata in We Build, ex Salini Impregilo, ora è alla prova più impegnativa di Autostrade di cui sarà il principale azionista in una nazionalizzazione di fatto. Il punto vero è il prezzo. Avendo detto il governo che la compravendita s’ha da fare non sfuggirà ai più che il detestato venditore ha un non modesto vantaggio negoziale. Ma Cdp è esposta per 3,18 miliardi nei confronti del gruppo Atlantia (2,05 verso Autostrade), di cui 1,88 erogati. Il credito potrebbe essere trasformato in azioni.
Vecchio e nuovo
La bontà dell’investimento pubblico e privato è legata alla redditività del capitale. E dunque bisognerà rivedere l’articolo 35 del decreto Mille proroghe di fine 2019 che riduceva il risarcimento per la revoca della concessione da 23 a 7 miliardi. Si dovrà ricontrattare tutto ma è difficile che un nuovo investitore, soprattutto se internazionale, non si tuteli contro il rischio di una nuova crisi politica tra proprietario e concessionario. E poi c’è la riduzione delle tariffe anche questa sventolata a più mani. Le tariffe, molto probabilmente, non diminuiranno. Diminuisce il tasso di remunerazione dei nuovi investimenti, non di quelli vecchi. L’attuale concessionario (con dentro i Benetton cui verrà consegnato il nuovo ponte sul Polcevera) vi resterà ancora a lungo. Non se ne va domani mattina, come da narrativa corrente. La trattativa per un aumento di capitale e nuove regole non si esaurirà in pochi mesi. Del resto ci si è messo due anni per prendere una decisione come quella (notturna) dei giorni scorsi. Poi c’è un non trascurabile tema di governance. Chi nomina chi. E qui generalmente casca l’asino. O cresce l’appetito di potere.