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 2020  luglio 19 Domenica calendario

Le piante che se ne fregano della geopolitica

Durante l’estate le belle Ipomoea indica, i convolvoli perenni, che ciascuno di noi ha visto scorrere senza notarli, durante i viaggi estivi in treno invadono le massicciate ferroviarie, i pali che portano l’elettricità al treno stesso, le scarpate incolte e li coprono di cascate di fiori blu. Con la loro crescita smodata, nel giro di pochi mesi, portano in evidenza il tema della manutenzione del mondo selvatico. Come migliaia di altre specie che lambiscono le vie di comunicazione umana, indipendentemente dalla loro rarità e anche dal fatto che diano davvero fastidio vengono tagliate, trinciate, diserbate. Ordine, disordine: dove risiede la perfezione in natura? Ci sono piante che non accettano di essere coltivate ma sono disponibili alla convivenza con l’uomo a patto che non le si voglia costringere. Farebbero molto comodo in giardino perchè richiedono poche cure, fioriscono mesi e crescono moltissimo ma i vivaisti non le coltivano volentieri perchè sono piante che odiano stare in vaso da dove spesso evadono. Un po’ come Romneya e Macleaya: due papaveraceae di grande bellezza e di grande stazza che una volta assestate in giardino si allargano con talmente tanta libertà da creare grossi grattacapi a tutti i giardinieri. Piante facili ma non altrettanto facili da reperire in un vivaio. Come un gatto senza padrone che decide di vivere con noi sfiorandoci, o una volpe che ci guarda da una decina di metri di distanza e non si fa toccare, ma continua a frequentare curiosa il nostro giardino. Il rispetto delle reciproche esigenze permette questa condivisione dello stesso spazio vitale senza gerarchie. Un sottile equilibrio in comunicazione. 
Le piante hanno acquisito un posto d’onore nella società, sono il motore culturale per riprogettare la città e sono le paladine del rispetto per l’ambiente. Sono addirittura uno strumento politico: pensiamo green, piantiamo alberi per guardare al futuro, creiamo insieme la città giardino. Siamo bombardati da stimoli ecologisti e sempre più persone sentono il bisogno di circondarsi di piante che, da semplici vegetali, cioè quegli stessi esseri imperturbabili che sono stati al centro di un dibattito filosofico per secoli, sono ora accomunate agli animali da compagnia nel sentire comune. 
Ma quanti le conoscono davvero? Proviamo a decifrare i loro bisogni: se il termine dare da bere alle piante crea un’empatia maggiore rispetto al verbo annaffiare, bisogna prendere atto che concimarle non vuole dire dar loro da mangiare perché esse si nutrono dell’energia prodotta dalle foglie tramite fotosintesi. Come si può stabilire un rapporto con organismi tanto diversi? E come si fa a capire cosa pensa una pianta? Proviamo a introdurre il neologismo etologia vegetale per comprendere il comportamento di una pianta, per imparare come coltivarla ma anche per decifrare meglio come relazionarci con la natura fino a estendere il concetto di giardino a un orizzonte più ampio. 
Le piante sono organismi opportunisti, hanno una scala temporale diversa dalla nostra che li guida anche nella loro propensione alla vita comunitaria. Inoltre hanno un bisogno innato di viaggiare per sopravvivere, metodi di comunicazione da fantascienza, un corpo policentrico, un cervello diffuso difficile da immaginare per noi animali umani. Piuttosto che chiederci come pensano, possiamo tentare di decifrare cosa pensano. La sfida alla nostra portata, per ora, può essere scoprire il loro obbiettivo nella vita destrutturando la nostra concezione di paesaggio. Qualche anno fa i romanzi e i film di fantascienza hanno iniziato a popolarsi di robot antropomorfi che ci hanno turbato con una nuova visione organica della tecnologia: le macchine erano di carne e ossa come noi. È ora in corso qualcosa di analogo con le piante e la natura in senso lato. 
È come se improvvisamente riuscissimo a conoscere le piante oltre la loro declinazione più artificiale del giardino. Individui, non più solo strumenti. Prendiamo ad esempio il caso degli ailanti nati nella chiesa dello Spasimo, alla Kalsa di Palermo. La loro presenza imprevista ha condotto chiunque abbia visitato lo Spasimo oltre l’estetica, la biologia e anche oltre la sicurezza ambientale e la conservazione dei beni architettonici. Io stesso ho amato quegli alberi semplicemente perchè erano un regalo di una natura generosa e donavano grazia. Per via della loro spregiudicatezza erano parte del luogo ma dopo un breve dibattito, sono stati abbattuti per instabilità. Tuttavia concordo con Giuseppe Barbera che in merito cita il vecchio saggio: «fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce». 
Che atteggiamento possiamo tenere con la vegetazione spontanea? Prendiamo ad esempio un altro albero, anzi la più temuta pianta invasiva d’Europa : la robinia di Square René Viviani a Parigi. Questo esemplare di Robinia pseudoacacia fu piantato nel 1601 dal botanico francese J. Robin che, dopo averla classificata per primo in Nord America, la importò in Francia. È un albero monumentale piuttosto malconcio, ancora vitale grazie agli sforzi di generazioni di giardinieri che sanno come rendere longevo un esemplare appartenente a una specie che non lo è affatto. Con una circonferenza alla base di oltre tre metri e mezzo, e quindici metri di altezza, questa robinia ha aperto il dibattito sulle specie aliene invasive che, grazie alla loro sfrenata proliferazione hanno minato la biodiversità e le piante autoctone europee. Eppure ha fiori profumati, cresce in fretta, si adatta ad ogni terreno, produce addirittura un legno molto duro adatto a fabbricare mobili per esterno. Saranno solo le spine a metterne in dubbio il diritto di soggiorno dopo oltre quattro secoli di permanenza qui nel vecchio mondo? 
La provenienza delle piante è un’informazione che viene spesso utilizzata tendenziosamente per creare allarmismi: trovo assurdo che non abbia la stessa rilevanza nei manuali di giardinaggio, quando invece sarebbe strategica per la loro coltivazione. Sembra che il luogo d’origine delle piante interessi solo per etichettarle come aliene, ma quante sono rischiose al pari di un uomo per l’ambiente? Quante sono capaci di naturalizzarsi e non semplicemente sopravvivere? Guardandomi intorno nel mio giardino di Piuca vedo che le piante che crescono meglio sono quelle che, come me, hanno una vocazione cosmopolita, in questo il mio giardino ed io ci assomigliano molto. Nessuna pianta è interessata alla geografia politica: gli organismi vegetali si spostano di generazione in generazione in cerca di ambienti propizi. Pigliamo ad esempio un’altra invasiva: l’ailanto che è originario dell’isola indonesiana di Ambòina e che, con la sua vegetazione lussureggiante, è diventato simbolo della natura, come nel celebre quadro Il sogno di Henri Rousseau. L’ailanto, dopo essere stato importato per scopi produttivi, si è diffuso fino ad essere preso come nemico numero uno delle architetture. Eppure è tra le poche piante pioniere che sono in grado di sopravvivere dove è stato fatto di tutto per cancellare la vita spontanea: in città. 
L’albero che cresce a Brooklyn nel celebre libro di Betty Smith è un ailanto e Alain Weisman nel suo libro Il mondo senza di noi, lo vede come un protagonista della rinascita della Terra dopo l’antropocene. 
Come si fa dunque a comprendere le piante? Difficile rispondere ma aiuterebbe iniziare a vederle come organismi gentilmente anarchici ma non per questo privi di ordine e nemmeno teorici del caos. E frequentarle non più solo nelle forme abbozzate di un giardino ma anche nell’apparente caos del selvatico dove crescono liberamente e la loro perfezione ci fornisce gli strumenti per un appassionante diario naturalistico.