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 2020  luglio 19 Domenica calendario

La dittatura delle statue cupe

Corpi nudi, tanti, ovunque: un’immensa parata di corpi nudi, perfetti. Corpi maschili – muscoli potenti, espressione corrucciata, virilità esibita – e corpi di giovani donne, loro modellate con forme morbide, da procreatrici: snelle ma con seni turgidi e un bacino ampio abbastanza da ospitare e generare una prole numerosa. Da porre al servizio del Terzo Reich.
Perché la statuaria nazista sia costituita, in misura larghissima, da nudi, è l’oggetto dell’indagine condotta nel suo ultimo, monumentale volume (Scultura programmatica del Terzo Reich. Corpi dogmatici, letali dettami di bellezza) da Klaus Wolbert, lo storico dell’arte tedesco scomparso nello scorso aprile, che per oltre quarant’anni ha caparbiamente studiato questa materia così urticante per le coscienze, e perciò trascurata da tutti. Un libro ricco di rarissime immagini e nutrito dalla vastità della cultura storica, antropologica e politica del suo autore, ben noto in Italia per essere stato al timone della VAF Stiftung, la fondazione istituita nel 2000 dall’imprenditore e collezionista Volker W. Feierabend, con la missione (più che riuscita, com’è provato dal numero e dalla qualità delle sue opere depositate al Mart di Rovereto) di promuovere l’arte italiana moderna e contemporanea.
Corpi perfetti, dunque, ma di una perfezione che dà i brividi, perché fondata con evidenza su ideali razziali ed eugenetici, in cerca di un modello corporeo che confermasse la superiorità genetica del popolo tedesco. Inevitabile, nella ferocia della loro ideologia, che al mito dell’uomo superiore si accompagnasse il disprezzo per i corpi non conformi a quei canoni superomistici. Il che, ai loro occhi, avrebbe legittimato l’eliminazione fisica di chi se ne discostasse troppo, a causa di imperfezioni fisiche o mentali: etichettati come deformi, ripugnanti, e quindi come «aberrazioni indegne di vivere», quegli esseri umani, al pari degli odiati ebrei, dei rom, degli omosessuali, dovevano morire. Loro la chiamavano «igiene», razziale e sociale. 
Tale tremenda premessa emerge palpabilmente da quelle sculture che, pur nella loro perfezione formale, emanano non solo un sentore di morte ma uno “stridore” estetico sconosciuto, per esempio, alla migliore scultura celebrativa fascista, che poteva contare non solo su un gigante come Arturo Martini ma anche su numerosi artisti meno noti, eppure di qualità (gli atleti nudi dello Stadio dei Marmi nel Foro Italico, a Roma, scolpiti anche da autori dimenticati, sono lì a testimoniarlo). I nazisti reclutarono un drappello di scultori (buoni accademici per lo più; nessuno, però, toccato dal genio) che s’industriarono a tradurre in immagine quei dogmi estetici sotto la guida di Arno Breker e Josef Thorak, sicuramente i più dotati, e i prediletti del Führer. A imbrigliarli, però, c’era da un lato la rigidezza dei canoni cui attenersi, dall’altro la lontananza di quei modelli dalla loro tradizione culturale.
Quali figure, infatti, scelsero i nazisti per impersonare l’Edelmensch(l’uomo nobile, superiore) tedesco? Non le divinità del Pantheon norreno o germanico, né gli eroi della loro mitologia medievale, che pure spadroneggiavano nelle opere di Richard Wagner: non c’è un solo Odino, né un Sigfrido, né un Lohengrin fra quelle sculture, ma ci sono, a frotte, gli dei dell’Olimpo, Nike, le Ninfe, le Muse. Mancava, infatti, al loro programma propagandistico, qualunque substrato storico: se il fascismo si rifaceva alla scultura greco-romana, rivendicando comprensibilmente una discendenza culturale da quel mondo, il nazismo ricorse alla statuaria classica inventando una presunta «affinità elettiva» con i Greci antichi, per i quali Hitler nutriva una passione sconfinata. Così, paradossalmente, i modelli per una scultura che voleva celebrare l’uomo (perfetto) germanico, furono tratti dal Sud dell’Europa, dal Mediterraneo, bell’e pronti com’erano alla loro nuova funzione grazie al bagaglio di valenze culturali, ideali e simboliche di cui erano da sempre portatori. Tanto che Leni Riefenstahl, nel suo film sulle Olimpiadi di Berlino del 1936, Olympia, spesso sovrappose, in dissolvenza, i corpi degli atleti a quelli di celebri statue greche.
Al contrario della statuaria sovietica o fascista, poi, quella nazista non celebrò mai la figura del Führer (forse per la manifesta inadeguatezza del modello?), mentre erano numerose le raffigurazioni ideali, come La prontezza, il nudo virile di Arno Breker che avrebbe dovuto coronare il monumento a Mussolini voluto da Hitler nel 1938 e destinato alla Mussolini-Platz di Berlino, progettata dal fido Albert Speer. Il monumento non fu mai terminato, né la scultura (alta ben 11 metri) fu realizzata. Restano solo le 14 colossali colonne che, disposte in un’aulica architettura, avrebbero dovuto sorreggerla, ma che da Berlino furono poi traslocate a Stoccarda, dove – vendetta della storia – oggi fiancheggiano mestamente una centrale di riciclo della città. Lo stesso destino d’incompiutezza, del resto, fu condiviso da gran parte dei progetti monumentali del regime, rimasti, come molte grandiose sculture, allo stato di maquette, sebbene le riviste del tempo li pubblicassero come già realizzati. Infatti, sono proprio le maquette, i modelli, i bozzetti (e non solo perché le poche opere realizzate, dopo la guerra furono distrutte), a illustrare questo volume prezioso, primo vero studio su quel capitolo della storia dell’arte del XX secolo.