Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  luglio 19 Domenica calendario

Storia dell’Africa

Ci siamo abituati a considerare l’Africa un vuoto eterno, indistinguibile dall’immagine stessa della sua miseria; una voragine immemore, in cui si dissolvono tracce ed epoche, e la varietà culturale e linguistica sbiadisce in un evanescente fondale monocromo. Della voragine siamo in buona parte responsabili noi, che apparteniamo alla razza dei conquistatori, cioè dei distruttori e degli sperperatori. Il vuoto, soprattutto durante e dopo i colonialismi più recenti, ci ha fatto un gran comodo: si controlla meglio quel che si nega; ci si discolpa più efficacemente distogliendo lo sguardo dai crimini. 
D’altro canto, l’apparente atemporalità dell’Africa dipende anche da certe condizioni originarie: in particolare, la penuria di archivi e di biblioteche e, prima ancora, la limitata pratica della scrittura. Qualunque causa invochiamo, resta che il ricercatore si trova a operare in una generalizzata penuria di prove. Molti materiali – ceramiche, maschere e manufatti di diverso utilizzo – si sono dispersi in collezioni private e pubbliche prima che se ne potesse registrare accuratamente il luogo di provenienza e così stabilire la datazione e l’importanza sociale. Gran parte delle collezioni africane dei principali musei fluttua in un’irrimediabile incertezza cronologica. Le tecniche di analisi chimica, infatti, assicurano solo la databilità dei reperti più arcaici. Gli scavi, inoltre, non restituiscono ormai che briciole, e da quelle soltanto si deve sperare di restituire una parvenza dell’irrecuperabile tutto perduto.
Ha senso, in conclusione, parlare di un’antichità dell’Africa? E se ne ha, da che cosa è rappresentata? C’è l’Egitto, si dirà subito. Già, l’Egitto... Potremmo pensare a miglior esempio di antichità? In effetti no. Ma siamo sicuri che l’Egitto sia veramente Africa? Non è invece Mediterraneo, come la Grecia, l’Asia Minore, Roma? E anche a volerlo prendere per Africa sulla base della posizione, non si tratta di un’intercapedine perfettamente isolabile nella sua eccezionalità geografico-culturale? 
A partire da queste domande François-Xavier Fauvelle, il primo a occupare una cattedra di studi africani al Collège de France, ha dato impulso a un nuovo corso di ricerche, di cui troviamo una sintesi nel volume L’Africa antica, pubblicato da Einaudi (nel 2017 lo stesso editore aveva pubblicato di Fauvelle anche il saggio Il rinoceronte d’oro). Si badi al sottotitolo: Dal 20 000 a. e. v. al XVII secolo (in tutto il volume sono evitate le diciture abbreviate “a. C.” e “d. C”.). Un arco temporale di tanta ampiezza ha dell’assurdo, e facilmente induce il lettore a domandarsi che cosa sia l’antichità quando non si riesca a chiuderla in delimitazioni cronologiche più ravvicinate. Fauvelle, però, sottolinea che le civiltà dell’Africa – prima della penetrazione straniera – hanno seguito sviluppi tutt’altro che sincronici. La contemporaneità africana non è costituita da uguali livelli di progresso sociale e artistico, ma – per strano che a noi occidentali possa sembrare – «include vari periodi storici». 
Insomma, non esiste una sola Africa. Questo è il punto centrale del discorso, e finché questo non sarà di dominio comune è necessario continuare a ripeterlo. E non esistendo una sola Africa, dobbiamo accettare che non esista una sola antichità, e che la stessa idea di tempo – o di misurazione del tempo – si diversifichi, alternandosi tra rappresentazioni lineari e modelli ciclici, tra resoconti scritti e narrazioni orali. Va così a farsi benedire un’altra clamorosa menzogna: quella dell’Africa-origine, dell’Africa-infanzia, inchiodata all’inizio. 
La proteiforme natura dell’oggetto di studio produce molteplicità di approcci e di voci. Fauvelle, sostenitore delle contaminazioni metodologiche, firma le parti introduttive e una sezione sul Sahel occidentale. Il resto è affidato a una squadra di ben venticinque specialisti (sei dei quali donne), per la maggioranza impiegati nell’accademia francese, che, variamente periti di antropologia, di storia, di storia dell’arte, di linguistica e di archeologia, firmano capitoli monografici su singole zone, costruendo un intarsio di civiltà – città, lingue, arti, credenze, relazioni – che abbraccia, attraverso i secoli, tutto il continente, dal nord al sud, dall’ovest all’est. 
Va notato che solo uno degli studiosi è africano, Théodore Nicoué Gayibor, professore all’Università di Lomé (Togo). È vero che Fauvelle osserva che la ricerca locale è gravemente impedita dalla carenza di risorse (diamole noi, allora, le risorse!). Di certo una maggiore partecipazione di esperti africani al volume sarebbe stata non solo auspicabile, ma intellettualmente necessaria, poiché il discorso sulla storia e sull’antichità dell’Africa non si può in nessun modo svincolare dall’interpretazione che di quella storia e di quella antichità si è sedimentata all’interno della stessa cultura africana. Nella pretesa “oggettività” di qualunque ricerca storica deve rientrare con pieno diritto uno studio della “soggettività” con cui gli individui più direttamente coinvolti e dunque più competenti per intendere la specialità dei codici sociali abbiano elaborato un pensiero autonomo sulla propria tradizione. 
Prova di quel che sto affermando è il bel capitolo dell’appena ricordato Gayibor sull’oralità, che compare nella sezione conclusiva (perché non si è pensato di posizionarla in apertura?), interamente rivolta a problemi di metodo: interpretazione dei residui, classificazione delle fonti, definizioni di arte, ruolo delle donne nella perpetuazione delle tracce. Cito qualche riga di quel capitolo: «Non tutti sono in grado di evocare i personaggi e gli avvenimenti del passato. (…) Il confronto fra il tradizionista [professionista del racconto storico] e il suo pubblico garantisce la qualità del racconto, la sua conformità alle attese dell’uditorio, oltre alla correttezza della sua espressione. L’oratore dalla memoria lacunosa incorre talvolta in gravi sanzioni (…) Il vero testimone è colui o colei che, sin da quando era giovane, avendo vissuto accanto a persone più vecchie, è capace di ascoltare, di vedere e di ricordare, e soprattutto di conservare la sua lingua. Chi non risponde a questi criteri, viene spesso privato della parola storica» (pagg. 540-541).
L’Africa antica è una superba pubblicazione, che riafferma la pluridecennale vocazione di casa Einaudi per l’opera preziosa ed enciclopedica. Vi si ammira non solo la grande quantità di saperi e di informazioni – con magari, talvolta, un minimo fastidio per la pretesa di esaustività –, ma anche la magnifica cura editoriale, l’eleganza della carta, la squisitezza degli apparati iconografici: fotografie di luoghi e di oggetti, carte geografiche, didascalie, box di riepilogo o di approfondimento. Ciò messo in evidenza, per chiudere voglio riaffermare quello che considero il maggior merito del volume: l’apertura critica, piena di responsabilità, consapevole che il lavoro sull’Africa antica stia solo incominciando.