Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2020
L’auto-intervista del reprobo Céline
«La verità, eccola, pura e semplice, l’editoria si trova in una crisi di vendite gravissima. Mica credere a un solo zero di tutte le pretese tirature di 100 000! 40 000!…neanche 400 copie!…incanta-gonzi! Ohimè!…Ohimè!...solo la ‘stampa rosa’…e ancora ancora!…se la cava abbastanza…e forse i ‘libri gialli’…i verdastri…Fatto sta che non si vende più niente…grave!». Siamo nel 1954, Louis-Ferdinand Céline, il reprobo, il proscritto, il Mr. Hyde antisemita che cerca di tornare ad essere accettato come dottor Jekyll, è riuscito a tornare in patria dopo la condanna e l’amnistia. Si è rifugiato, e rapidamente barbonizzato, in una villetta della periferia parigina, a Meudon, in compagnia dell’angelica moglie Lucette, che ha ripreso a dare lezioni di danza, e di un piccola corte di gatti, cani, pappagalli, cui dedica un affetto paterno.
A preoccuparlo non c’è solo il fatto che i francesi («snob, fessi e servili») sembrano folgorati dalle novità del nascente consumismo, cinema, radio, tv, auto, viaggi, crociere. Si sente dimenticato, rimosso. Ha provato a rientrare nel giro letterario, ma sia Féerie pour une autre fois che Normance, deliranti racconti degli anni di guerra come li ha vissuti lui, Parigi sotto le bombe alleate e le sofferenze della prigionia in Danimarca, sono accolti da un silenzio glaciale, che lo rende ancora più livido e rabbioso. La colpa naturalmente è del suo editore, Gaston Gallimard, «lo squalo», «il vecchio cioccolataio», il riccastro che non fa niente per lui mentre invece si prodiga per tutti gli altri autori: «se ne sta a farsi succhiare il giunco in riva al lago…mentre io sto sempre lì a battere i marciapiedi per coprire di visoni le sue baldracche quest’inverno!».
Gaston ha un bello spiegargli che non ne può niente se i lettori gli preferiscono Delly o Via col vento o Don Camillo, che la pubblicità e le recensioni servono a poco, quel che che conta è il passaparola; in ogni caso bisogna rendersi disponibili a interviste, foto, radio. Il furioso prende la palla al balzo: ecco, sì, una bella intervista per le sue decrepite riviste, sarà un piccolo choc che non gli farà del male. Ci potrebbe pensare Jean Paulhan, l’uomo che nel dopoguerra si è più speso per reintegrarlo, ma ha troppo da fare, deve farsi curare… Poco male, si arrangerà da solo.
Si inventa un intervistatore che chiama Professor Y. È un certo colonnello Réséda, un pensionato con ambizioni letterarie, che ha anche lui un manoscritto in lettura da Gallimard. Uno dei tanti compitini «sarcastici», «archeologici», «proustici», «senza capo né coda», «nobelici», «anti-anti-razzisti», «allamanieradì», scritti da noiosissimi mediocri che sognano il Goncourt e rendono mefitica un’aria letteraria già compromessa del suo.
Naturalmente il presunto professore è il più risibile degli interlocutori: afflitto da problemi di minzione, ignorante, goffo, pavido, ma è il tonto che ci vuole per scatenare la furia del polemista, che ce l’ha con tutto e tutti: gli scrittori cacciatori poltrone che hanno saputo arraffare «una bella fetta di torta», ma scrivono come si dipingeva verso il 1862; i pataccari che rifilano ideologie fasulle ai giovani, che si bevono tutto, da quei gonzi che sono; quelli che ancora non hanno capito che il cinema ha reso obsoleto il vecchio modo di scrivere, la dittatura dell’io lirico, la volgarità dei sentimenti. Mentre invece lui, maledetto o non maledetto, può vantarsi di essere «l’unico inventore del secolo», quello che ha saputo restituire «l’emozione del linguaggio parlato attraverso lo scritto», anche se è «una fatica da non crederci». Il creatore dello «stile metrò», «profilato special», in cui il treno della scrittura si avventa su binari calcolati al millimetro, dove i famosi tre puntini di sospensione fanno da traversine, l’equivalente delle pause in musica. Spiega ancora una volta che l’immediatezza di quel che sembra naturale è frutto di un artificio curato maniacalmente in ogni minimo dettaglio. E rispolvera la vecchia immagine che gli è cara, quella del bastone che, immerso nell’acqua, sembra spezzato. Se vuoi che sembri diritto, devi spezzarlo tu, prima.
Un primo capitolo dell’autointervista esce a giugno del 1954 sulla «Nouvelle N.R.F», ma le cose si complicano. Per completare il seguito Céline vuole altri soldi. Quando poi lo scrive e gli dicono che è troppo lungo e bisogna tagliare, grida che è un «oltraggio mostruoso», che non toccherà nemmeno una virgola. Dà al povero Paulhan, («Anemone Languido», lo chiama di solito) dello «sfarfallante purista proditorio», del «Landru proustrato, massacratore di testi». Alla N.R.F., disperati, cedono. La seconda e terza parte escono nel 1955; il tutto viene infine raccolto in volume. Tiratura iniziale, 7.000 copie, anche se lui ne chiede il doppio.
Usciti da Einaudi nel 1971, primo libro del Grande Allucinato nel catalogo dello Struzzo (a quei tempi non era una cosa così ovvia e pacifica), i Colloqui con il professor Y segnano l’inizio di un Rinascimento céliniano in Italia che molto deve all’impulso iniziale di Gianni Celati, che li tradurrà con il francesista e amico Lino Gabellone. Il «narratore delle pianure» è nel vivo di una effervescente stagione di letture, viaggi, lavori, traduzioni, scritture proprie (Comiche, Le avventure di Guizzardi). Al vecchio amore per Joyce e l’Ulisse ha affiancato quello per i francesi (Barthes, Artaud, Lévi-Strauss, Lacan, Bataille, Beckett), che sono diventati la sua «droga quotidiana»; l’amicizia con Calvino ha avviato un dialogo intenso, e un progetto di rivista.
Celati è l’uomo giusto per portare in Italia quella voce arrochita e paranoide, avvitata in un parossismo senza fine. L’intento promozionale dell’intervista è presto dimenticato. I Colloqui sono una jam-session in cui l’anarco-dinamitardo della banlieu scatena il suo jazz percussivo, trascinando il lettore in una specie di trance auditiva. Teatro puro, una slapstick comedy, scrive Celati, che gli ricorda nei ritmi e nelle gag gli amati fratelli Marx, Stanlio & Ollio, Buster Keaton; specie nel finale, quando il professore ormai in preda alla follia vuole incontrare a tutti i costi e ricoprire di fiori Gallimard, il vero oggetto del desiderio di intervistatore e intervistato.
Ha dunque fatto bene Quodlibet a riproporre i Colloqui con una sobria nota introduttiva di Martina Cardelli, anche se dopo mezzo secolo sarebbe quasi un obbligo riaprire il cantiere della traduzione, che non può mai chiudere, pur continuando a onorare e fare i conti con le versioni “storiche”. Il bello è che nel 1974 Celati, che nel frattempo aveva tradotto anche il ponderoso romanzo Il ponte di Londra, si lamenta con Einaudi un po’ come faceva Céline con Gallimard: «Sono stato pagato né più né meno come l’ultimo traduttore dei vostri fregnacciosi strutturalisti francesi».