Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2020
La rinascita di Pittsburgh
Durante la quarantena, in Italia è scomparso il lievito. In Francia, il burro. In diversi stati Usa, i fucili sono andati a ruba e sono finite le cartucce. A Pittsburgh è scomparso lo zenzero.
Impossibile trovarne un pezzo, non importa quanto raggrinzito. Dopo molti tentativi, ci si rassegna ad andare da Whole Foods, la catena di supermercati dove qualunque prodotto è biologico, saporito, sano, sostenibile, etico (e tremendamente caro). Niente zenzero neanche lì. La commessa si limita ad alzare gli occhi al cielo. Risponde, secca, «Google». E passa a un altro cliente. Come molti altri abitanti, sospettava che la scomparsa dello zenzero fosse dovuta ai lavoratori di Google (molti dei quali asiatici). Qualche anno fa, infatti, l’azienda ha insediato proprio a Pittsburgh uno dei suoi mega centri di ricerca. Si trova nella vecchia fabbrica dei biscotti Oreo, adesso integralmente ridipinta, non si è Google per nulla, in rosa shocking. Altri sospettavano invece gli impiegati di Facebook, il cui centro di ricerca si trova in un fortilizio di quattro piani a pochi metri dal campus. Sarebbero stati loro i veri responsabili dell’accaparramento dello zenzero, così come della scomparsa delle marmellate senza zuccheri aggiunti.
Questo tipo di discussioni possono sembrare surreali in altri luoghi, ma non a Pittsburgh. Un tema controverso del dibattito politico locale è il progetto del Comune di riservare un’intera strada ai veicoli senza conducente. Nella terra di nessuno tra l’University of Pittsburgh (pubblica) e la Carnegie Mellon (privata), può capitare di imbattersi in qualche robottino antropomorfo che cerca – al fine di migliorare la propria interfaccia in linguaggio naturale – di attaccare bottone coi passanti (cosa da quelle parti vietatissima agli umani, soprattutto se di genere diverso, ma sembra permessa ai robot). E dove i bambini possono dire tranquilli che da grandi lavoreranno nell’intelligenza artificiale. Non è California, è la Pennsylvania orientale: benvenuti nella più improbabile città dell’Hi-Tech.
La natura umana è quella che è: dopo un po’ non ci si stupisce più di nulla. Quando si sbarca all’aeroporto di Pittsburgh, spesso si è ostaggi di frammenti di ricordi e di informazioni datate. C’è chi si ricorda una delle più belle canzoni di Springsteen dedicata a una città vicina, irta di ciminiere che si stagliavano contro un bellissimo cielo di fuliggine e argilla. Altri, aiutati magari dalla geografia studiata alle medie, ricordano come sino ai primi anni 70 più della metà dell’acciaio del pianeta venisse prodotto proprio a Pittsburgh, che non a caso è chiamata ancora Steel City. Qualcuno ricorda uno dei più bei passaggi del Gattopardo dove l’autore, commentando l’indolente sicurezza degli Dei dell’Olimpo dipinti sui soffitti del suo palazzo palermitano, scrive «Si credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburgh, Pennsylvania, doveva nel 1943 provar loro il contrario» (il palazzo venne distrutto il 5 aprile di quell’anno).
È abbastanza per aspettarsi fabbriche abbandonate, case dimesse e qualche magione principesca qui e lì a ricordare un passato migliore. Una Detroit meno violenta, insomma. Del resto è a Pittsburgh che Romero ha girato La notte dei morti viventi (una sottoscrizione popolare ha recentemente salvato il tenebroso cimitero).
Pittsburgh invece è oggi una delle città più vivibili del pianeta, cosa attestata da una lunga serie di celebrities, da Barack Obama a Christina Aguilera. È la città che è riuscita a fare della de-industrializzazione un’occasione di crescita. Non che sia stato facile: tra il 1970 e il 2000, ha perso quasi metà della popolazione e il reddito medio è sceso del 10 per cento. Poi però le cose hanno cominciato a cambiare: oggi è uno degli epicentri della vasta – e cruciale – confraternita dei nerd. Le loro tasse affluiscono nelle casse municipali, e così anche i servizi riescono a tenere botta. Se si dimentica l’accaparramento dello zenzero (e della marmellata senza zuccheri aggiunti), Pittsburgh è la prova che la “gentrificazione” può essere gentile.
Uno dei misteri degli studi urbani è perché a Pittsburgh non sia successo quello che si vede in città con una storia simile, come Toledo o Cleveland. Posti dove è meglio non camminare da soli. Se si chiede agli esperti locali si riceve – oltre a mezzo scaffale di volumi e rapporti di ricerca – una risposta abbastanza semplice. In quasi tutte le città del Midwest, quando l’industria è andata in crisi, le élites cittadine hanno venduto il vendibile e tagliato la corda. A Pittsburgh queste sono invece rimaste al loro posto, salvando il salvabile, chiudendo rapidamente ciò che non poteva essere salvato, investendo in nuovi settori. I politici locali, come qualunque candidato sindaco italiano, hanno subito detto che occorreva puntare su sanità, conoscenza e tecnologia. Solo che a Pittsburgh lo hanno fatto davvero.
Il tutto sembra avere funzionato. Qualche ciminiera si vede ancora, rigorosamente spenta. Molte delle fabbriche sono oggi parchi, abitazioni e uffici. Il cielo non è più quello cantato da Springsteen. C’è ancora qualche casa dimessa, ambitissima dai newyorkesi che con la vendita di un monolocale a Manhattan ristrutturano mezza strada a Pittsburgh. La nuova città a molti piace, ad alcuni meno. Di sicuro, i palazzi nobiliari di Palermo non hanno più niente da temere dalle specialità industriali di Pittsburgh. Almeno sin quando non sarà l’intelligenza artificiale ad ambire al posto degli Dei dell’Olimpo. Molti a Pittsburgh pensano che quel giorno non sia troppo lontano.