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 2020  luglio 19 Domenica calendario

A tavola con Giampaolo Dallara

«Un mattino arrivo in ufficio a Maranello. Avevo ventitré anni. Mi ero da poco laureato in ingegneria aeronautica al Politecnico di Milano. Mi avevano preso per fare le prime prove con la galleria del vento. Facevo i calcoli a mano e usando il regolo calcolatore. Sulla scrivania trovo un biglietto. Non era firmato. Ma l’inchiostro era viola: “Più ordine, prego”. Solo lui usava quel colore per la sua stilografica: Enzo Ferrari».
Giampaolo Dallara è un pezzo del Novecento e, con la sua energia e la sua lucidità, rappresenta ancora, a ottantaquattro anni, una promessa di futuro. 
È uno degli ultimi grandi vecchi di un mondo che ha plasmato le automobili con la stessa materia di cui sono fatti i sogni, miscelando gli impulsi verso l’avventura e i desideri della bellezza con la razionalità degli ingegneri e la cura maniacale per le cose ben fatte e ben ordinate. È il padre della Lamborghini Miura, una delle macchine più iconiche del secolo scorso. È l’ingegnere che si è fatto imprenditore e che ha cambiato il mondo delle corse, arrivando a fornire – da Varano de’ Melegari, provincia di Parma – tutte le monoposto della formula IndyCar negli Stati Uniti. Anche se si schermisce: «Ferrari, Ferrari e ancora Ferrari. Lui è inarrivabile. Senza di lui, nessuno di noi sarebbe esistito».
Qui al Ristorante Castello di Varano de’ Melegari, sull’Appennino parmense, ogni cosa è declinata secondo la cifra di questa parte dell’Italia, così nascosta e così centrale. L’intimità con l’oste Stefano Numanti ha la dolcezza emiliana: «Ho portato i miei quattro nipoti in ristoranti stellati, ma alla fine loro mi dicono sempre “sì, sì buono, però la prossima settimana andiamo da Stefano”», racconta Dallara. E Stefano replica: «A Giampaolo l’ultima volta ho detto “dai, vieni con me e mio fratello a prendere le more selvatiche”, poi mi son pentito, pensavo che non reggesse i sentieri, fino alla cima della montagna, e invece a ottantaquattro anni veniva su che era un piacere».
Sulla tavola si trovano il parmigiano di montagna e gli affettati, gli gnocchi e i tortelli, la carne che arriva dalle aziende agricole di queste vallate e il pesce pescato nel fiume Ceno, un affluente del fiume Taro: «Come prima cosa assaggia questo salame di maiale nero di Parma, è fatto con bestie che vivono libere al pascolo», dice Dallara.
La nostra conversazione compone un’idea, non retorica ma sostanziata di risultati, sull’industria e sulle automobili, sulla comunità e sul mondo, sui vecchi e sui giovani. Un ottimismo sia del cuore che della ragione, che contempla con realismo il tema della sorte e del dolore: «Poche settimane fa, era qui da noi in paese a prendere l’aperitivo Alex Zanardi con la sua hand-bike. Un grande amico. Correva in Formula 3 con la nostra macchina. Pochi giorni dopo ha avuto l’incidente», dice Giampaolo con una tristezza che gli produce uno spasmo alla bocca. La vita è difficile. Può capitare di tutto. Nella esistenza di ognuno, nelle scuderie delle gare da corsa e nelle imprese industriali. L’ottimismo del cuore e della ragione ha sempre un fondo di pragmatismo, formatosi in quello che Dallara chiama “la fabbrica degli errori”. «In Ferrari – dice Dallara, mentre chiede una bottiglia di Gewürztraminer, perfetto con il pesce di fiume – il Drake nella sala riunioni aveva appeso alle pareti la biella rotta, il pistone spaccato, l’ingranaggio distrutto. Il suo messaggio era: l’errore lo abbiamo fatto. Va bene. Ora ripartiamo».
In questo momento, con il Pil che sprofonda verso un -15% nel 2020 e con l’attesa di un settembre in cui molte imprese manifatturiere e molte attività commerciali non riapriranno, Dio sa se c’è bisogno di un ottimismo che nasca dalla “fabbrica degli errori”.
L’oste porta una terrina di zucchine raccolte nell’orto, da mangiare insieme al crudo di Parma e appunto al salame di maiale nero. Dallara ha l’inquietudine dell’imprenditore. E, forse anche per questo, nella professione non è rimasto prigioniero della gabbia dorata di Maranello: «Dopo un anno e mezzo lascio la Ferrari per passare in Maserati. Io sogno i circuiti, l’Europa e l’America. E, alla Maserati, mi cercano per il reparto corse. A Enzo Ferrari, però, non ho il coraggio di dirlo. E mi trincero dietro una bugia: “sa, devo andare a lavorare con mio padre nella sua piccola ditta di costruzioni”. Lui viene subito a sapere la verità: la Maserati è a Modena, a due passi da Maranello, ci conoscevamo tutti allora come oggi, qui nella Motor Valley. E si infuria. Non tanto perché io abbia chissà quale talento, ma perché allora la concorrenza è vera e io, anche da ultimo arrivato all’ufficio tecnico, sono stato a Maranello un anno e mezzo e so su che cosa e come si lavora. Ferrari prende la macchina e sale qui fino a Varano de’ Melegari. Trova mio padre Ennio e gli chiede dove sono. Lui ammette che sono a Modena in Maserati, l’altro dice “guardi che lo so”, e aggiunge: “Suo figlio ha figurato male”, che in emiliano vuol dire ha fatto una brutta figura».
Arrivano i piatti portati da Roberto: lui ha preso una tartare di trota, cavolo cappuccio e mele secche, io gli gnocchi di zucca con il parmigiano a scaglie semifuse sopra, dal meno stagionato (16 mesi) al più stagionato (40 mesi). Qui è tutto Emilia Romagna. Qui è tutto Italia. A tavola, come in fondo nella storia di Dallara. Che, dopo un anno e mezzo al reparto corse della Maserati di Modena, nella vitalità di un’Italia del Boom di cui dobbiamo senza enfasi riconoscere la nostra matrice economica e civile, si sposta alla Lamborghini di Cento, dove a 27 anni è direttore tecnico. La Lamborghini è, appunto, l’impresa fondata da un’altra personalità incredibile, Ferruccio Lamborghini. Dallara è l’anti-guru. Non ha la saccenteria che possono avere gli uomini che hanno costruito qualcosa di importante. Parla dei nipoti Federico (28 anni), Carolina (23), Pietro (21) e Matteo (19) con l’affetto incondizionato e puro dei nonni. Ma, anche, con la preoccupazione di chi sa che le cose per loro – per le nuove generazioni – non saranno affatto facili: «Penso sempre al futuro. E credo che, perché un futuro per tutti noi italiani ci sia, sia utile ricordare e imparare la lezione di Lamborghini. Lamborghini sapeva di meccanica e di motori. Ma aveva capito che serviva una fusione fra questo, lo stile e la comunicazione. Lui usava le competenze e l’attenzione per i costi della sua fabbrica di trattori, da cui ha generato quella delle automobili. Chiamava i grandi stilisti: la Miura è la prima macchina di un allora sconosciuto Marcello Gandini, che lavorava per Nuccio Bertone. Aveva un genio per i nomi: ho le foto di lui in Spagna che chiede agli allevatori dei tori Miura l’autorizzazione di chiamare così l’auto. E, poi, possedeva il senso degli eventi e quasi dello spettacolo. Al Gran Premio di Montecarlo del 1967, all’Hotel De Paris, espose all’ingresso la Miura, con un ritorno di immagine clamoroso. Non so come fece. Ma Ferrari impazzì. L’anno dopo, il principe Ranieri di Monaco e la principessa Grace Kelly parteciparono alla cerimonia del Gran Premio sul prototipo della Lamborghini Marzal. Meccanica e marketing, meccanica e stile, meccanica e comunicazione. Noi italiani dobbiamo ripartire da lì. Questo vale per tutti i settori industriali, non solo per l’auto».
L’essere imprenditore. Con una azienda fondata nel 1972, nell’edificio della casa dove è nato dal papà Ennio e dalla mamma Adele: «Si è sempre fatto così, per risparmiare». Sviluppando e costruendo auto da competizione, nell’Italia delle gare in salita e in pista. La Dallara, dopo i primi anni, ha acquisito solidità grazie alla collaborazione con la Lancia, per la quale ha realizzato la Lancia Beta Montecarlo nel 1978, la LC1 nel 1972 e la LC3 nel 1973.
L’oste porta in tavola il secondo: a lui una zuppa di zucchine con i gamberi di fiume, a me una trota di fiume, con salsa di acciughe, in pinzimonio di frutta e di verdura di stagione. Sul tema dell’impresa e dell’imprenditore, Dallara ha compiuto una scelta radicale e non scontata in Italia. «Ho sempre saputo di avere molte lacune come manager – dice – non sapevo mai, durante l’anno, se guadagnavo o se perdevo. Il controllo di gestione e la pianificazione finanziaria non le sapevo fare. A un certo punto, mi sono reso conto che, se fossi cresciuto ancora, mi sarei fatto del male. La mia vocazione sono le auto e i motori, le carrozzerie e i nuovi materiali, le tecnologie e lo stile. Nei negoziati, spesso non mi tutelavo abbastanza. Sono stato fortunato, perché non ho mai incontrato persone non perbene: se qualcuno non mi ha dato dei soldi, è perché veramente non ha potuto. Ma certamente, quando è entrato in azienda nel 2007 come amministratore delegato e come socio un manager internazionale come Andrea Pontremoli, la Dallara ha acquisito tutta un’altra solidità e tutta un’altra prospettiva di sviluppo».
L’oste porta in tavola del gelato alla crema con le ciliegie selvatiche, servite calde dopo la cottura nel lambrusco: «Le hanno raccolte in montagna, queste ciliegie, sono la cosa più buona che ho mangiato nell’ultimo periodo», dice con la passione degli emiliani per il cibo, che anche quando non è smodata è sempre divertita. E, poi, insieme al caffè, biscotti di tre tipi: con le noci, con la farina integrale e con la farina della polenta. «Assaggia Paolo, assaggia tutto. Sono deliziosi», dice Dallara. 
E, davvero, la speranza è che, ripartendo dalla “fabbrica degli errori”, con energia e amore, con ottimismo del cuore e della ragione, si possa tutti insieme affrontare le cose che verranno.