Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  luglio 19 Domenica calendario

La guerra del Nilo tra Egitto ed Etiopia

In fondo, il premier etiope Abiy Ahmed non ha mai cambiato linea:«Se l’Etiopia non riempie la diga, significa che ha deciso di abbatterla», aveva dichiarato a inizio mese. È stato di parola, ma non è chiaro se per sua volontà. La tensione sta crescendo tra Etiopia, Egitto e Sudan dopo che l’acqua ha iniziato a fluire nel bacino della Grand Ethiopian Renaissance Dam: il maxi-progetto della «Diga della rinascita dell’Etiopia» sul Nilo Azzurro, iniziata nel 2011 dopo essere stata immaginata per la prima volta negli anni 60 del secolo scorso. Il Cairo e Khartum si sono irritati per la scelta di dare il via al riempimento senza formalizzare un accordo a tre sui tempi dell’operazione e la (eventuale) distribuzione delle risorse idriche. Il governo etiope ha smentito qualsiasi coinvolgimento diretto, spiegando che l’aumento dei livelli di acqua è dovuto all’intensità delle precipitazioni nella stagione delle piogge. L’incremento registrato «è in linea con il processo naturale di costruzione della diga» ha cercato di smorzare il ministro dell’acqua etiope Seleshi Bekele, assicurando che la situazione verrà risolta in sede diplomatica.
Le immagini fornite dai satelliti offrono versioni contrastanti e, nell’attesa, Egitto e Sudan chiedono chiarimenti più netti sull’accaduto. Il dissidio non è nuovo e muove interessi proporzionati alle ambizioni in campo. Il progetto della «Gerd», costato 4,8 miliardi di dollari e seguito anche dall’italiana Webuild (la ex Salini Impregilo), darà vita alla più grande diga dell’Africa e alla settima su scala mondiale: 1.800 metri di lunghezza e 170 di altezza, con un bacino che può contenere 74 miliardi di metri cubi d’acqua e due centrali elettriche capaci di generare circa 6.000 megawatt di elettricità. Un picco che raddoppierebbe la capacità di produzione energetica dell’Etiopia, affrancandola dalla carenza di elettricità che rallenta la crescita economica e nega la corrente a oltre la metà di una popolazione arrivata sopra la soglia dei 110 milioni di abitanti.
Non stupisce che l’opera sia diventata una ragione di orgoglio nazionale per il Paese, anche perché finanziata – ufficialmente – con soli fondi etiopici sotto forma di bond o donazioni. Ma neppure che l’Egitto e il Sudan la considerino una minaccia per il proprio accesso alle risorse idriche. Il Sudan, ultime frizioni a parte, ha assunto un atteggiamento più accomodante e riconosce alla Diga gli effetti benefici di argine alle piene che rovinano le coltivazioni e di leva per un import di energia a costi abbordabili. Il Cairo è meno incline al compromesso. Il Paese attinge dal Nilo il 90% delle sue risorse idriche, per di più disperse in sistemi di irrigazione inefficienti. Il timore è che la maxi-diga etiope aggravi drasticamente la sua carenza di accesso all’acqua, arrivando a perdite stimate dall’agenzia Reuters intorno agli 1,8 miliardi di dollari e un milione di posti di lavoro l’anno.
Negli anni 70 del secolo scorso, le autorità egiziane avevano paventato rappresaglie militari contro qualsiasi progetto di diga sul Nilo Azzurro. Ora i toni sono meno bellicosi e le tre parti in causa confidano in un accordo, ma i margini non sembrano più ampi di quelli già esplorati senza successo fino a ora. Anche se si è infiammata nell’ultimo decennio, la disputa è antica. Il Cairo ha sempre rivendicato i suoi diritti sul Nilo, rifiutandosi di aderire alle iniziative multilaterali nonostante le acque del «fiume sacro» bagnino un totale di 11 diversi Paesi africani. Egitto e Sudan si sono tenuti al di fuori del Cooperative Framework Agreement, un accordo firmato da Etiopia, Burundi, Ruanda, Kenya, Tanzania e Uganda, mantenendosi fedeli a un accordo sottoscritto nel 1959 per la «spartizione» delle acque del Nilo. L’arroccamento ha iniziato a vacillare quando l’Etiopia ha dato il via al progetto della Gerd, gettando – letteralmente – le fondamenta di uno stallo lungo quasi un decennio.
Nel 2015 Etiopia, Egitto e Sudan hanno sottoscritto una dichiarazione di principio per avviare negoziati tecnici sulla diga. Nell’arco di un anno il dialogo si è impantanato sui tempi di riempimento della diga e sulla concessione di una «quota idrica» di emergenza per l’Egitto e il Sudan. Il Cairo aveva chiesto un protocollo che vincolasse l’Etiopia a garantire una riserva annua di 40 miliardi di metri cubi d’acqua nei primi anni, per attutire gli impatti della diga e di ondate di siccità che si annunciano anche più critiche con l’incombere del cambiamento climatico. La risposta è stata negativa.
Negli anni successivi non è andata meglio, nonostante (o forse a causa) delle mediazioni esterne, dagli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Tra gennaio e febbraio 2020 gli Usa hanno provato a ospitare in casa propria nuovi round di negoziati, cercando di far incontrare le posizioni di due alleati chiave come il Cairo e Addis Abeba. Un nulla di fatto che si è mantenuto anche quando il ruolo di mediazione è passato all’Unione africana, l’istituzione che raccoglie i 54 Paesi del Continente, regista degli ultimi e fallimentari round di negoziati. Il dato di fatto è che né Egitto né Addis Abeba, i due pesi massimi nella triangolazione con il Sudan, possono fare troppe concessioni.
«Per l’Etiopia ritardare il riempimento significa accettare una limitazione alla sovranità nazionale- dice Emanuele Fantini, ricercatore all’IHE Delft Institute for Water Education (Paesi Bassi) -. Mentre per l’Egitto il Nilo ha una valenza simbolica e costitutiva». Nel caso dell’Etiopia la questione è resa anche più delicata dall’instabilità che sta logorando il Paese e il clima di «pacificazione» che sembrava essersi inaugurato con l’avvento di Abiy. Il premier, Nobel per la pace nel 2019, si è trovato a dover gestire i disordini esplosi dopo l’omicidio del cantante e attivista Hachalu Hundessa, costati la vita a oltre 80 persone solo nei primi giorni. Un campanello d’allarme sulle tensioni che continuano ad agitarsi sotto il «federalismo etnico» dell’Etiopia e le pulsioni separatiste che premono soprattutto nelle regioni settentrionali. «La diga è l’unico manifesto di unità politica del Paese al governo. Abiy non ha altre scelte, deve insistere» spiega Luca Puddu, docente di storia dell’Africa all’Università di Bologna. I media locali paragonano la grande Diga alla battaglia di Adua, la storica vittoria degli etiopi contro le truppe coloniali italiane nel marzo del 1896. Interrompere quel sogno potrebbe essere rischioso.