La Stampa, 19 luglio 2020
Biografia di Isaac Asimov
Il mio primo incontro con Isaac Asimov è stato caratterizzato da una lunga serie di sorprese, a cominciare dall’assoluta semplicità con cui riuscii a raggiungerlo per un’intervista. Io avevo 26 anni e lui era un personaggio leggendario: tutto mi sarei aspettato tranne che rispondesse personalmente al telefono e mi dicesse subito «Venga a trovarmi tra due ore». Mi diede appuntamento in un appartamento nell’Upper West Side che aveva acquistato da poco da un costruttore rampante di nome Donald Trump, sul quale mi disse: «Mette il proprio cognome su tutti gli edifici che costruisce. Ha un’alta considerazione di sé. O vuole che gli altri la abbiano».
Fu lui stesso ad aprire la porta dell’appartamento. Tranne gli occhiali, non aveva nulla dello stereotipo dello scienziato: avevo di fronte un uomo gioviale e pieno di ironia, con una giacca a quadri arancioni e gialli, e un monile rotondo al posto della cravatta. Aveva poi due enormi basettoni che arrivavano quasi fino al mento, e uno sguardo affilato, di quelli in grado di leggere subito l’animo dell’interlocutore. Avevo promesso a Enrico Ghezzi che gli avrei chiesto per suo conto anche quale fosse il suo film preferito, e appena ci accomodammo nel salotto, completamente disadorno, decisi di rompere il ghiaccio iniziando proprio con quella domanda. Lui non esitò un attimo prima di rispondermi «Mary Poppins», e lo disse con l’aria stupita di chi non ritiene neanche concepibile che si possa avere un’idea alternativa: era entusiasta del film, e riteneva che l’adattamento voluto da Walt Disney dal libro della Travers fosse geniale.
Mi resi conto in quel momento che aveva una forte cadenza newyorkese, che solo negli anni ho identificato con quella di Brooklyn: sapeva parlare però numerose lingue, tra cui lo yiddish, e si rammaricava che tra queste non ci fosse l’italiano. Era nato nel 1920 a Petrovici, nella provincia di Smolensk, in una famiglia di ebrei ortodossi. Quando aveva un anno contrasse assieme ad altri 15 bambini una gravissima forma di polmonite, e fu l’unico a sopravvivere. La comunità pensò che fosse il segno di un futuro glorioso, e reagì con disappunto quando i genitori, due anni dopo, decisero di trasferirsi negli Stati Uniti per fuggire dalla Rivoluzione sovietica e dalle persecuzioni razziali. «Il mio cognome originario era con la Z, e ha origine dal lavoro dei miei antenati, che commerciavano in segale», mi spiegò, mentre continuavo a fissare la giacca sgargiante: era un modo per dichiarare la felicità di essere nel Mondo nuovo. Solo in seguito scoprii che il cambiamento del cognome, avvenuto a Ellis Island, era stato traumatico per la famiglia, e aveva ispirato il racconto Spell my name with S.
Mi spiegò che era cresciuto a Brooklyn, dove il padre era titolare di alcuni negozi di generi alimentari nei quali si vendevano anche caramelle e fumetti: «Erano le uniche due cose che mi appassionavano, e in qualche modo hanno formato l’uomo che sono diventato». Aveva ricordi vaghissimi dei primi anni passati nella sua terra d’origine, ma ci teneva a chiamarla Russia e non Unione Sovietica. «Non credo che abbia nulla a che fare con il mio ebraismo, ma c’è una cosa che devo rivelarle e credo chiarisca molto di quello che sono. Io amo gli spazi piccoli e sin da bambino e ho sognato di possedere un’edicola per poterla trasformare nella mia abitazione». Mi fissò negli occhi, sfidandomi a trarre qualche deduzione, e solo allora mi resi conto che l’appartamento nel quale ci trovavamo aveva i soffitti bassi e gli spazi di dimensioni molto piccole. Capì perfettamente a cosa stavo pensando, e sorrise: «L’ideale sarebbe avere un’edicola all’interno di una stazione della metropolitana, in modo da sentire in sottofondo il rumore dei treni mentre leggo tutte le pubblicazioni che vendo».
Fece un nuovo sorriso poi cominciò a raccontarmi della sua esperienza durante la Seconda guerra mondiale e quindi del suo lavoro universitario, che fece con abnegazione, fin quando non si accorse che i racconti che scriveva per hobby lo facevano guadagnare molto di più. Da allora aveva scritto più di 500 testi, molti dei quali diventati di culto, quali Io, robot e il Ciclo della Fondazione. «In quello che scrivo c’è il bambino nato in Russia», mi spiegò, «il ragazzino ebreo di Brooklyn, il giovane che va a combattere al fronte e l’uomo che studia e poi insegna all’università: lascio ai critici decifrare come tutto questo sia diventato fantascienza». Poi riprese: «E c’è anche l’uomo che ha firmato alcuni libri con lo pseudonimo Paul French, che non ha mai imparato a nuotare, che guida l’automobile malissimo, ed è patito di operette e letteratura poliziesca». Fece una pausa prima di aggiungere: «E c’è infine l’uomo che ha avuto un’operazione a cuore aperto e ha tre by-pass».
All’epoca non potevo sapere che nel corso di quell’operazione aveva subito una trasfusione con sangue infetto: pochi anni dopo sarebbe morto di Aids, a due giorni di distanza da Arthur Ashe, vittima della stessa circostanza: la famiglia parlò di un’infezione renale, e solo tempo dopo la moglie Janet decise di rivelare la verità. Non aveva molti amici in campo letterario, e sia in quell’occasione sia negli incontri successivi mi parlò quasi esclusivamente di Kurt Vonnegut, che stimava per la sua libertà intellettuale. Aveva parlato con lui dell’idea di riformare il calendario, e Vonnegut era stato l’unico a incoraggiarlo, salvo poi invitarlo a farsi una bevuta quando la proposta fu rifiutata da tutti.
Sapeva ridere dei suoi insuccessi, e non amava parlare dei suoi libri: si limitava a dire di considerarsi «uno dei più versatili scrittori del mondo e un divulgatore di quanto aveva appreso studiando la scienza». Ha scritto in campi molto diversi dalla fantascienza, a cominciare dalla storia romana di cui era appassionato, per non parlare dei commenti all’opera di Shakespeare, Milton e Swift, sino a una guida di 1.300 pagine alla Bibbia. Nel finale di quel primo incontro tornammo a parlare di cinema, e mi raccontò che aveva fatto il consulente ripetutamente per Star Trek , «anche nelle versioni televisive», specificò con orgoglio, «non bisogna aver mai paura dell’arte popolare».
L’ultima volta che lo vidi gli chiesi cosa fosse rimasto dell’uomo di scienze nel suo approccio alla letteratura, e lui rispose: «Questa è un’altra domanda a cui risponderanno i critici… Io posso solo dire che l’aspetto più triste della vita odierna è che la scienza aumenta la propria conoscenza più velocemente di quanto la società aumenti la saggezza».