La Stampa, 19 luglio 2020
Nei mari dell’Asia tornano i pirati
Bucanieri, pirati e corsari tornano all’arrembaggio. Non è un revival per nostalgici dei romanzi di Emilio Salgari, ma la realtà dei mari dell’Asia nella prima metà del 2020. Gli atti di pirateria in Asia sono infatti raddoppiati da gennaio a giugno di quest’anno con 50 assalti alle navi, 16 dei quali solo nello stretto di Singapore. I Paesi più colpiti sono Bangladesh, India, Indonesia, Filippine, Vietnam e il Mar cinese meridionale. Il bottino a volte è magro, ma può arrivare a milioni di dollari. Quando si pensa ai pirati contemporanei, può venire in mente il film "Captain Phillips," interpretato nel 2013 da un coraggioso Tom Hanks che si difende dai predoni al largo della Somalia. Ma, in realtà, in questi anni le acque più pericolose al mondo sono tornate a essere quelle che cominciano nello stretto di Malacca della Malesia nord-occidentale, passano per Singapore, risalendo lungo il Borneo, per scorrere lungo l’isola di Labuan e la Mompracem (Kuraman) dei pirati della Malesia Tremal-Naik e Sandokan, lasciando poi il Brunei per tangere le Filippine e viaggiare verso l’Asia del Nord. Di qui transitano 120 mila navi ogni anno, un terzo del commercio globale. E l’80 % del petrolio importato da Cina e Giappone.
La strategia dei predoni
Molti degli assalti sono definiti come "opportunistici," dall’ente di controllo dell’Accordo di cooperazione regionale per la lotta alla pirateria e alle rapine a mano armata contro le navi in Asia. Secondo Brandon Prins, esperto di pirateria dell’Università del Tennessee, il coronavirus ha peggiorato la situazione: «Spesso i pirati sono solo pescatori che vogliono far soldi in fretta. La pirateria è una rapina a mano armata in acque internazionali. Si tratta prevalentemente di piccoli gruppetti, tra le tre e le otto persone, che salgono a bordo armati di coltelli e pistole per rubare qualcosa in fretta: metalli di scarto, pezzi di ricambio per motori, radio di bordo e effetti personali dell’equipaggio. Sono crimini che nel 2020 risultano addirittura più frequenti soprattutto per effetto della crisi economica innescata dalla pandemia e dal lockdown. La crisi fa sì che ci siano meno marinai a bordo, meno equipaggio, meno personale di sicurezza e quindi più opportunità per i pirat». Ma ci sono anche i sequestri di persona: in Asia cinque marinai sono ancora ostaggio dei pirati e, in tutto il mondo, sono 77 i marinai rapiti da gennaio a oggi.
L’arcipelago dei pericoli
La pirateria è una vicenda antica in queste acque. Nel diciottesimo secolo le navi olandesi e britanniche che si contendevano il controllo dei mari dell’Estremo oriente erano bersaglio dei pirati che rubavano sete, gioielli, spezie, brandy e tesori. L’arcipelago indonesiano con i suoi 95 mila chilometri di coste è impossibile da pattugliare. E difatti proprio qui si verifica il 40% degli attacchi. Dopo la Seconda Guerra mondiale, le isole di Riau furono il quartier generale dei predoni dei mari. Negli anni Novanta arrivarono i micidiali mitragliatori, oltre ai machete. Tra il 1995 e il 2013 i pirati hanno ucciso 136 persone in Asia, il doppio delle vittime di questo crimine in Africa. Quel che fa gola non sono solo i piccoli furti, ma il petrolio. Fece clamore il caso dell’Orapin 4, assalto organizzato nel Borneo indonesiano con coordinamento militare e pianificazione meticolosa. Due ore dopo il tramonto del 28 maggio di sei anni fa, una banda di dieci uomini armati di machete e pistole imprigionò capitano, ingegnere ed equipaggio. I pirati cancellarono la "O," la "i" e il "4," cambiando il nome della nave in "Rapi" (come rapina) e nelle 10 ore successive succhiarono via 3700 tonnellate di petrolio per un valore di 1,9 milioni di dollari. Spesso questi casi aprono indagini approfondite. Decenni fa, una nave russa aveva un capitano russo, equipaggio russo e bandiera russa.
I nuovi rischi
Oggi è più facile trovare una nave giapponese battente bandiera panamense con capitano indonesiano che si sceglie indipendentemente un equipaggio filippino. Le occasioni di fughe di informazioni aumentano esponenzialmente. Si è venuto a sapere infatti che, cosa sempre più probabile con la crisi post-Covid-19, capitani e ingegneri a volte vendono informazioni su rotte e carichi, consentendo di rivendere poi il petrolio in alto mare ad altre navi i cui capitani che non conoscono la provenienza illecita del petrolio. Si calcola che i bucanieri si portino via dai 7 ai 12 miliardi di dollari l’anno tra colpi grossi come quello dell’Orapin 4 e le piccole rapine in alto mare che aumentano in parallelo con l’impoverimento dei paesi del sudest asiatico a causa della pandemia.