Corriere della Sera, 19 luglio 2020
Lunga intervista a Achille Occhetto
Achille Occhetto è stato uno dei protagonisti del momento in cui l’Italia cambiò pelle. A lui si deve la scelta della nascita di un partito della sinistra che raccogliesse, innovandola radicalmente, la tradizione del Pci. Si dice che in quel tempo il nostro Paese passò alla «Seconda Repubblica». Ma fu davvero così?
«Non c’è mai stato un passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Anche perché è del tutto evidente che non è sufficiente cambiare una legge elettorale per passare ad un’altra Repubblica. Altrimenti nel momento in cui dovessimo tornare al proporzionale saremmo in una Terza Repubblica, o saremmo ripiombati nella Prima. Naturalmente nel dire questo non nego che ci siamo trovati di fronte, all’inizio degli anni Novanta, ad uno spartiacque storico, culturale e anche di relazioni umane. Capace di determinare quella che io preferisco chiamare una seconda fase della Prima Repubblica, prodotta da un vero terremoto del sistema politico, più che di quello istituzionale. Al centro ci sono due eventi fondamentali: il crollo del Muro di Berlino e l’operazione di Mani pulite. Se noi avessimo avuto solo il primo evento, cioè il crollo del Muro, quel passaggio storico sarebbe stato guidato dalla politica, che lo avrebbe controllato pienamente. L’avvento del secondo elemento, Mani pulite, ha determinato una sovrapposizione che ha fatto sfuggire il controllo del processo alla politica, e tutto si è mosso in direzioni impreviste».
Ci sarebbe stata Tangentopoli senza il crollo del Muro di Berlino?
«Non c’è, da parte mia, nessuna critica all’operazione dei magistrati. I magistrati non si sono inventati certamente la corruzione. Ma politicamente gli esiti sono sfuggiti di mano e ci siamo trovati di fronte ad una sorta di eterogenesi dei fini. Senza Mani pulite il corso degli eventi sarebbe stato prevalentemente segnato dalla svolta epocale del crollo del Muro. Tutte le forze politiche erano destinate a mutare così come era destinato a mutare il sistema politico- istituzionale. Nel fare la svolta dicemmo non a caso che «la campana del nuovo inizio suonerà per tutti» anche perché il sistema politico precedente al crollo del Muro era stato segnato irreversibilmente dalla Guerra fredda che aveva favorito la centralità della Democrazia cristiana, scudo di una politica fondata sulla conventio ad excludendum, ma, non sottovalutiamolo, aveva segnato anche in modo evidente i rapporti a sinistra e tra le forze riformiste».
Come visse quel passaggio la sinistra?
«Per ciò che riguarda i rapporti a sinistra vorrei dare una testimonianza di quello che sto dicendo. Noi abbiamo avuto da parte di Craxi, nei confronti del processo che stava cambiando l’insieme delle forze in Italia e nel mondo, due momenti: uno di grande interesse verso la svolta, poi un blocco totale. Era già del tutto evidente, prima di Mani pulite, che saremmo andati a delle soluzioni diverse anche nei rapporti con i socialisti, perché cadevano i motivi storici della divisione tra comunisti e socialisti: quelli legati ai temi della libertà, dei rapporti con l’Urss... Si stava avviando un processo nuovo. Lo testimoniano i miei rapporti con Martelli. Quando lui diventa reggente, nel momento in cui Craxi non è più segretario, si apre un dialogo nuovo. Molti lo hanno dimenticato. Ma io tenni con lui dei comizi, famoso uno di Mantova con la piazza pienissima. Questi due popoli, che precedentemente erano in odio tra loro, si ritrovavano insieme, perché quel muro era caduto, e facevano sperare che una pagina della storia fosse cambiata. Ma poi cosa arriva? Pochi giorni dopo Martelli è azzoppato da un avviso di garanzia, forse figlio di una manovra interna volta a impedire che questo processo andasse avanti».
Nel ‘94 arriva Berlusconi...
«L’operazione Mani pulite, asfaltando il sistema dei partiti della prima fase della Repubblica, ha liberato milioni di voti che non si sentivano più rappresentati, favorendo indiscutibilmente l’ascesa di Berlusconi, a sua volta espressione di processi culturali degenerativi. Tuttavia la vera novità della politica è che, comunque, si è introdotto da quel momento il bipolarismo, l’alternativa tra un centrodestra e un centrosinistra, il ricambio al governo. È impreciso sostenere che il bipolarismo fu avviato da Berlusconi. La cultura dell’alternativa è stata preparata dai referendum di Segni dei quali noi siamo stati convinti sostenitori. Segni, in un’intervista con te sul Corriere, lo ha chiaramente ricordato. La cultura dell’alternanza è stata sospinta dalle nostre posizioni contro il consociativismo, dalla legge Mattarella, sulla quale Berlusconi non ha avuto nessun ruolo, così come dalla legge sui sindaci da lui non votata perché non era entrato in politica e non era in Parlamento. Il suo merito fu indubbiamente quello di avere interpretato il nuovo spartito facendo convivere pezzi della vecchia politica e le nuove ondate di giustizialismo rappresentate dalla Lega e dalla destra del Movimento sociale. Dunque quella che stiamo vivendo da anni non è la Seconda Repubblica, ma la fase populista della politica italiana. Nella quale siamo ancora immersi».
Tu che giudizio storico dai del rapimento Moro e della fermezza?
«Per usare la famosa espressione di Pasolini, “Io so”. Ma, come lui, non ho le carte per dimostrare ciò di cui sono convinto: il rapimento di Moro non è circoscrivibile all’azione esclusiva delle Brigate Rosse. Non c’è dubbio che agissero due soggetti esterni all’Italia che per motivi diversi ma con, appunto, desideri identici, vedevano di malocchio l’operazione messa in campo del compromesso storico di Berlinguer e il modo come Moro aveva aperto ad una fase politica nuova, quella della solidarietà nazionale. C’erano elementi di opposizione durissima da parte dell’Urss e, come si sa, da settori rilevanti degli Stati Uniti d’America. I depistaggi, gli errori, gli equivoci di quei cinquantacinque giorni sono e rimangono un’ombra sulla vita politica del Paese. E qui si è inserito anche il grande dibattito, sulla politica della fermezza. Io sono stato d’accordo con la posizione di Berlinguer: legittimare un avversario pericoloso per la democrazia italiana come le Brigate Rosse avrebbe potuto mettere in ginocchio le istituzioni di uno Stato debole».
E forse per il Pci sarebbe stato particolarmente difficile...
«C’era una parte della sinistra che parlava addirittura di un album di famiglia. Il Pci non poteva prendere una posizione diversa, doveva essere netto. Però io individuo, nei due fronti, due linee diverse: in quello della trattativa c’erano posizioni umanitarie alte, nobili che ritenevano non si potesse, nel nome della ragion di Stato, sacrificare la vita di un uomo. Questa motivazione era quella che personalmente mi colpiva e mi faceva ragionare. Ma c’erano anche componenti che volevano utilizzare la trattativa per far saltare un processo di riavvicinamento tra le forze migliori della sinistra, il Partito comunista e il mondo cattolico. C’era anche un trattativismo peloso, non virtuoso. Ma è altrettanto chiaro che nel fronte della fermezza coesistevano una parte virtuosa – i settori migliori della Democrazia cristiana, i repubblicani e il Pci di Berlinguer – e una parte conservatrice, persino reazionaria, che voleva liberarsi di Moro perché osteggiava la sua politica di innovazione».
Cosa ricordi dei condizionamenti, delle pressioni, delle manovre dei sovietici contro il Pci di Berlinguer?
«Ricordo il suo viaggio all’Est e l’incidente d’auto, che anche per me era un attentato. Berlinguer e la sua politica davano fastidio. Ad Est lo avevano messo nel mirino. Più lui accentuava – pensa all’eurocomunismo, o al discorso sulla democrazia come valore universale – il distacco da quel mondo, più veniva considerato un pericolo per il blocco comunista e gli equilibri della Guerra fredda. Credo che anche questa consapevolezza lo spinse a proporre il compromesso storico e a prendere quella coraggiosa posizione sulla Nato. Berlinguer aveva percepito l’involuzione di quei Paesi, il mutamento profondo della loro natura».
Facciamo un passo indietro. La grande occasione storica della sinistra italiana, quella perduta, non è stata l’invasione di Ungheria del 1956, quando il Pci si schierò dalla parte sbagliata?
«Sì. Secondo me il vero momento in cui si è persa l’occasione di superare la scissione di Livorno e di andare all’unificazione delle forze di sinistra in Italia non è stata la mancata adesione dei comunisti alle forche caudine dell’unità socialista proposta da Craxi, ma nel ’56 quando, in realtà per responsabilità nostra, si ruppe con un Partito socialista che era l’anima di sinistra dell’Internazionale. Nenni era questo. Il Psi aveva dentro di sé uomini come Lombardi e Basso che rappresentano ancora oggi nella mia memoria, nella storia della sinistra, il meglio di quella cultura che ha dato vita alla Costituzione repubblicana. E noi, in quel momento, ci siamo mossi su una posizione che rimaneva legata all’Unione Sovietica. Dicevamo che bisognava stare da una parte della barricata. Ma era quella sbagliata. Non cogliemmo la verità interna dell’autonomismo del Partito socialista e, in quel frangente, si compromise la prospettiva di una sinistra riformista e maggioritaria in Italia. Quanto sarebbe cambiato il corso della vita politica italiana se il Pci avesse avuto il coraggio di fare allora quel passo storico?».
Credo di saperlo, ma vorrei raccontassi ai lettori del Corriere come nacque, in te la scelta della svolta. Quando matura in te questa decisione? Con quale grado di sofferenza?
«Ricordo due episodi: il primo è un comizio in piazza Santa Croce a Firenze. Mentre parlo arriva un foglietto in cui era scritto quello che stava accadendo in piazza Tienanmen. Interrompo il comizio e convoco dalla piazza la manifestazione per la sera stessa davanti all’ambasciata e lì dichiaro, avevo al mio fianco Ingrao il quale fu d’accordo, che il comunismo era morto. Il Corriere della Sera titolò proprio così:”Il comunismo è morto”».
E il secondo quale fu?
«Avevamo già aperto da tempo un’analisi critica delle nobili corresponsabilità di Togliatti nel momento staliniano, volevamo portare fino in fondo quella separazione di ispirazione che Berlinguer aveva teso al punto massimo, prima della caduta del Muro. Andai in Ungheria per il funerale postumo di Nagy. Quando tornai dissi: “Noi siamo stati all’avanguardia del processo di rinnovamento, rischiamo di rimanere retroguardia. Potrà cambiare tutto se i compagni ungheresi chiederanno prima di noi di entrare nell’Internazionale Socialista”. Il momento era venuto. Iniziai a chiedere cosa pensasse una parte rilevante dei deputati della sinistra indipendente dell’idea di dar vita ad una sinistra di tipo nuovo. Poi incontrai Neil Kinnock a Bruxelles. Io lo considero il vero innovatore del Partito Laburista inglese. Gli descrissi le linee di quello che noi avevamo chiamato, già interloquendo con un desiderio di cambiamento, il nuovo Pci. Lui rimase entusiasta: “Tutto quello che mi dici fa di voi già un partito della sinistra europea. Perché non cambiate nome?”. Io gli risposi tre volte che era difficile, molto difficile. C’era una storia grande, di persone e di idee, dietro quell’identità. Nel corso del colloquio ci interrompono e ci dicono di guardare la televisione. Vediamo le picconate al muro. Rilascio una dichiarazione che col nome non c’entrava: “Cambiano tutti i parametri della politica mondiale e sono finite le categorie della Guerra fredda. Tutti dovranno ridefinirsi».
E arrivi alla Bolognina...
«Prima sono passato per Mantova. Volevo vedere il rifacimento degli affreschi della sala dei Giganti di Giulio Romano. Ai partigiani dissi quello che in fondo era già uscito sui giornali: cambiava tutto, tutti dovevano ridefinirsi. Pensavo che al ritorno a Roma avremmo aperto una discussione per tradurre questa convinzione. Un giornalista mi chiede: “Tutto deve cambiare. Anche il nome?” Io non rispondo: “Sì”. Rispondo: «Quando dico che tutto è possibile, voglio dire tutto». I giornali il giorno dopo hanno titolato a nove colonne: «Il Pci cambia nome». So che non aiutò, per molti compagni fu un colpo durissimo. Però oggi posso dire che fu una felix culpa. Se avessimo seguito le vie tradizionali, i processi fisiologici, forse oggi saremmo ancora lì. Era un tempo di radicale cambiamento, noi dovevamo corrispondere a quel tempo».
Ho un ricordo personale: un momento in cui, nei giorni più duri, entrai nel tuo ufficio. Tu eri evidentemente turbato, ricordo che avevi un fazzoletto con cui ti asciugavi le mani. Sotto la finestra di Botteghe Oscure la macchina di Luciano Lama era stata presa a calci. Tu mi guardasti e dicesti: “Ma non avremo sbagliato?”».
«Lo sai che non mi ricordo? Non che non me lo voglia ricordare. Sono stati giorni terribili».
Mi colpì molto perché anche io avevo passato delle notti insonni. Quanto ti è costata umanamente quella scelta?
«Quella è stata la svolta del Pci, ma è stata anche la svolta della mia vita. C’è chi dice, tra quelli che erano stati contrari, che in quei giorni piangevano, che hanno sofferto. Io credo sinceramente che nessuno di loro abbia sofferto come me. (La voce a questo punto gli si incrina). E la prova della sofferenza fu il famoso pianto al congresso. Per chi veniva da quella storia, che era una storia di unità interna – il sentirsi comunque compagni di uno stesso destino – avere determinato una situazione di scontro interno così forte provocava un dolore eccezionale. Alla fine di quel congresso, quando Ingrao si avvicina e mi stringe la mano, io penso, sbagliando: “Bene, è finita. Ci siamo combattuti ma adesso, anche con posizioni diverse, costruiamo insieme, cosa che sarebbe stata del tutto naturale, il nuovo partito. I mesi prima del congresso di Bologna sono stati per me forieri di una intima sofferenza, quotidiana».
Parliamo del ‘94 e della scelta del Pds di dare vita alla lista dei «Progressisti» come alleanza per le elezioni...
«Bisogna partire da un presupposto: tutta la politica italiana è stata sorpresa dalla novità dell’entrata in campo di Berlusconi. Fino a quel momento tutti ragionavano con i vecchi schemi. In particolare la Dc, che fu elemento determinante di quella sconfitta. Sconfitta nella quale, peraltro, noi guadagnammo il 4 per cento per il partito. I Popolari erano ancora convinti di essere il centro della politica. Martinazzoli non accettò la mia proposta di un’alleanza. Io lo capisco: era difficile per lui spostare tutta la vecchia Dc a sinistra. Trovammo un accordo, importante: se la somma dei progressisti più i popolari avesse avuto la maggioranza, avremmo chiesto a Ciampi di continuare il suo lavoro di presidente del Consiglio».
E il dibattito?
«Il dibattito avviene in una posizione strana: il mio problema era quello di mostrare al Paese che noi avevamo acquisito, con la svolta, tutte le stigmate di un partito di governo. Berlusconi scelse la strada che gli era più congeniale. Fu il primo inizio del populismo televisivo e politico. Fu lì che disse la famosa frase sul milione di posti di lavoro. In quel momento mi posi il problema: cosa posso dire io? Un milione e mezzo? Due milioni? E poi Berlusconi riattivò, proprio con noi che eravamo entrati nell’Internazionale Socialista e avevamo fondato un nuovo partito, lo spauracchio del comunismo. Demagogia sociale e furia ideologica. Una miscela che ha fatto molto male a questo Paese».
Vuoi tornare sulle ragioni della scelta del nuovo nome? E su quelle due parole: democratico, di sinistra.
«L’unica alternativa a quella scelta era la proposta che mi fece Trentin: Partito Laburista. Ma era una parola estranea alla tradizione politica italiana. Per me l’idea forte del nuovo progetto era che la nuova sinistra doveva essere il centro catalizzatore di una nuova democrazia militante nel Paese. Non qualcosa che poteva vivere da sola ma una forza punto di riferimento aggregante per le migliori culture democratiche: il mondo cattolico, l’azionismo, l’ambientalismo, la cultura femminista. Quindi democratico diventava centrale. Ma ci tenevo a riaffermare la sua collocazione. Per questo scrivemmo sotto la Quercia l’espressione “di sinistra”. Tu ne sai qualcosa...».
All’inizio dei Novanta tu dicesti al Psi: «Dateci un segnale, venite con noi all’opposizione e costruiamo le condizioni per l’alternativa». Quale fu la risposta?
«In un incontro con Craxi parlammo sinceramente dell’odio che ormai c’era tra i popoli socialista e comunista. Io gli dissi: “C’è una sola via per superare questa ruggine profonda che non è tra di noi, ma è nelle basi dei partiti: facciamo una comune esperienza di lotta all’opposizione e costruiamo l’alternativa al sistema di potere democristiano”. Lui non si scandalizzò. Prese un foglietto e scrisse delle cifre. “Guarda la somma dei partiti di sinistra, non ci sono i numeri”. Gli obiettai: “Non fotografare la situazione, guardala in movimento. Pensa l’energia che si genererebbe se socialisti e comunisti facessero insieme, come succedeva nel governo delle giunte locali, una esperienza politica, stavolta di opposizione. Per la prima volta l’alternativa alla Dc, matura politicamente, sembrerebbe possibile». Lui si fermò ancora, stette in silenzio e poi mi disse: «Forse hai ragione». Poi indicò attorno a sé con la matita e concluse: «Però questi che mi stanno intorno, se vado anche solo un giorno all’opposizione, mi fanno fuori».