Corriere della Sera, 19 luglio 2020
In morte di John Lewis
Il nome di John Lewis è già scolpito in una lapide di Selma e nella storia americana. È morto venerdì 16 luglio, stroncato da un cancro al pancreas. Aveva 80 anni e per almeno 50 è stato uno dei grandi leader della comunità afroamericana. Spesso in mezzo ai guai: è stato arrestato 44 volte; sempre immerso in quelli che chiamava i «good troubles», i buoni problemi. Da Martin Luther King a Black Lives Matter. Dalle marce al Congresso degli Stati Uniti. Dalle bastonate della polizia alla «Presidential Medal of Freedom», nel 2011.
Ai piedi dell’Edmund Pettus Bridge a Selma, in Alabama, il suo volto sorride da una lastra di granito che lo ricorda come «il leader della Marcia tra Selma e Montgomery, Bloody Sunday, 7 marzo 1965».
La traccia di Lewis comincia nel 1958. A quel tempo lavorava nella fattoria riscattata dal padre, nella sua cittadina natale, a Troy, in Alabama. Separava il cotone, dava da mangiare alle galline e ascoltava la radio. Sentì un discorso del reverendo King e gli spedì una lettera. Il pastore gli rispose, inviandogli un biglietto dell’autobus andata e ritorno per Montgomery: «Vieni a trovarmi».
Seguono anni durissimi, decisivi. L’amministrazione di John Kennedy, con Robert al ministero della Giustizia, promette il superamento delle cosiddette leggi «Jim Crow» basate sul principio «liberi, ma separati». Bianchi nella parte più privilegiata della società; «black people» nel retrobottega delle scuole, delle università, del lavoro, degli autobus.
Nel maggio del 1961 Lewis, giovane studente in teologia, partecipa a un’azione dimostrativa: due corriere con sette afroamericani e sei bianchi si inoltrano nel profondo Sud. A Montgomery, John scende per primo.
È il suo battesimo con la piazza, con le botte del Ku Klux Klan, con i cani della polizia. Sarà così per una lunga stagione, in bilico tra barbarie e civiltà. Il 28 agosto del 1963 il ventitreenne Lewis parla a una grande folla dai gradini del Lincoln Memorial a Washington. Tocca a lui introdurre Martin Luther King che pronuncerà il famoso discorso «I have a dream».
Poi arriva il «Bloody Sunday» di Selma, con i manifestanti inermi attaccati brutalmente sul ponte Pettus, su ordine del governatore dell’Alabama George Wallace. Tra i fotogrammi ce n’è anche uno dell’Associated Press che ritrae il giovane Lewis con il suo impermeabile un po’ gualcito, in ginocchio, mentre cerca di riparare la testa dal manganello di un agente.
Quelle immagini spingono milioni di afroamericani a registrarsi per poter votare. La politica americana comincia lentamente a girare. Lewis viene eletto al Congresso nel 1986. Ci rimane per 34 anni, deputato democratico in rappresentanza del Quinto Distretto della Georgia.
Da subito diventa un punto di riferimento per compagni e avversari. Nel Parlamento mantiene il suo stile e il contatto con la sua storia personale. Si fa arrestare più volte fuori dall’ambasciata del Sudafrica, per i sit-in contro l’apartheid. Naturalmente sostiene con slancio Barack Obama e la sua riforma sanitaria. Nel giugno del 2016 partecipa «all’occupazione» simbolica dell’emiciclo alla Camera per chiedere misure restrittive sulle armi. Boicotta fin dal primo momento Donald Trump. Spinge per il suo impeachment. Infine, cronaca degli ultimi mesi, si commuove rivedendo le strade piene di giovani americani (non solo «black») dopo la morte di George Floyd.