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 2020  luglio 19 Domenica calendario

L’Europa ha una nuova Gran Bretagna?

Che le strutture di potere in Europa siano più complesse di quanto a volte ci si voglia illudere a Roma, Parigi o anche a Berlino era parso chiaro già una decina di giorni fa. Era stato l’ultimo segnale, il più chiaro, che il negoziato sul Recovery Fund sarebbe stato cosparso di trappole. Nadia Calviño, la ministra dell’Economia spagnola sostenuta da Germania, Francia e Italia, è rimasta bruciata nella corsa per la presidenza dell’Eurogruppo. Sottotraccia, una coalizione di Paesi piccoli è riuscita a far eleggere l’irlandese Paschal Donohoe: il ministro di un paradiso fiscale ha sottratto nel tempo decine di miliardi di entrate ai suoi alleati ai quali aveva appena chiesto aiuto.
Quel giorno non aveva perso solo Calviño: la sconfitta era soprattutto dei suoi sponsor a Berlino, Parigi, Roma e Madrid. Quattro nazioni che pesano per tre quarti della popolazione e del reddito dell’area euro hanno subito la rivincita di un ceto medio di Paesi europei più piccoli che spesso non si sentono trattati con pari dignità. È probabile che parte di questo risentimento faccia da sfondo anche alla partita che Mark Rutte, il premier olandese, ha deciso di giocare per due giorni e due notti nel vertice di Bruxelles sul quale l’Europa si gioca molto del suo futuro.
Al momento di andare in stampa non era chiaro l’esito dei negoziati. A lungo nascosta dietro un approccio di basso profilo, la cancelliera Angela Merkel per un giorno e mezzo ha evitato di mettere il collega dell’Aia sotto pressione con tutto il peso politico della Germania. Ma qualunque sia l’esito del confronto sul Recovery Fund, la questione olandese resterà: dopo il divorzio britannico, l’Europa ha un nuovo socio disposto a sfidare il sistema molto oltre quel che agli altri sembra razionale. L’Olanda di Rutte sarà per anni una spina nel fianco.
Un uomo politico che lo conosce bene dice del premier dell’Aia che sa perfettamente quale tipo di Europa non vuole, ma non sa quale vuole. Forse semplicemente non vuole i costi, solo i benefici. Vuole il mercato aperto e le sedi fiscali delle imprese degli altri Paesi del club, ma non intende finanziare il funzionamento del sistema. Vuole una moneta globale, ma chiede un veto del suo parlamento sui programmi europei degli altri governi e non riconosce il lavoro della Commissione. Proprio nella squadra guidata da Ursula von der Leyen si è capita l’incoerenza di questa posizione, perché le ultime raccomandazioni mandate all’Aia toccano tutti i nervi scoperti: «Correggere pienamente le caratteristiche del sistema fiscale che agevolano la pianificazione fiscale aggressiva» e «garantire la vigilanza e l’applicazione efficaci del quadro antiriciclaggio».
In altri termini, Bruxelles sta accusando Rutte di chiudere gli occhi di fronte al riciclaggio e di fingere di smantellare il paradiso fiscale che ha organizzato in Olanda nei suoi dieci anni da premier. Di certo gli esborsi del Recovery Fund, se mai ci si arriverà, saranno vincolati a «riforme» che i Paesi Bassi dovranno affrontare su entrambi i fronti.
Ma non sarà così che Rutte rientrerà nei ranghi perché la sua ribellione è politica, quasi ideologica. È la rivolta di un premier pieno di un senso nazionale di superiorità che i suoi interlocutori non gli riconoscono. Rutte non avrebbe problemi nel far approvare nel suo Parlamento un Recovery Fund accettabile per Merkel, perché avrebbe su quello i voti delle opposizioni di centrosinistra. Non rischia poi troppo alle elezioni fra nove mesi, perché i suoi liberal-conservatori viaggiano attorno al 40% e i sovranisti Thierry Baudet e Geert Wilders sono abissalmente indietro. Né deve rintuzzare una sfida euroscettica neanche dai democristiani. Semplicemente ha deciso di giocare una partita solitaria in Europa che nega il ruolo delle istituzioni comuni. Non se ne fida e in nome di questa sfiducia non esita a minacciare di peggiorare la recessione di Italia, Spagna e Francia, con cui l’Olanda ha un surplus commerciale pari al 4% del proprio reddito. L’ultimo leader così che l’Europa ha avuto è stato il britannico David Cameron. Non è finita benissimo per lui.