la Repubblica, 19 luglio 2020
Santi, navigatori e ristoratori
Nei ristoranti ci ho passato la vita. Non come Gianni Mura, ma quasi. Con preferenza per le bettole sapienti (Mura docet ) e qualche difficoltà a reggere le novantanove portate da un centimetro cubo ciascuna di alcuni stellati dai quali si esce con la labirintite delle papille, e domandandosi: ma che diavolo avrò mangiato? Non mi ricordo niente.
Detto questo, e manifestata dunque la mia devozione quasi indiscriminata per la categoria, mi domando che cosa abbia detto di così grave la viceministra Castelli, da meritarsi la sua raffica di indignazione quotidiana. Ha detto che se alcuni ristoratori rimangono senza clienti, bisognerà aiutarli a cambiare lavoro, attirandosi il solito coro di “vergogna!” ormai più stucchevole di certi “all you can eat” cinogiapponesi. Indistinguibile dal coro il Salvini, ai cui “vergogna!” quotidiani oramai non si fa più caso, come quando il cucù esce dall’orologio.
C’è una specie di nevrastenia punitivo-correttiva, nella comunità mediatica italiana, che ha veramente scocciato. Castelli non ha detto che bisogna avviare ai lager i cuochi eccedenti. Ha detto quello che molti, quasi tutti, hanno pensato quando, per esempio, a Milano ha aperto il milionesimo take-away e il miliardesimo baretto sui Navigli: ma come faranno a campare, tutti quanti? Il Covid ha drammatizzato, tra tante altre cose, anche il problema dello squilibrio tra offerta e domanda nel settore, da tutti amatissimo, del mangiare e del bere. Sono cose che capitano. Non ci hanno fatto una capa tanta dicendoci che questa è una società di mercato?