ItaliaOggi, 18 luglio 2020
Orsi & tori
5G, 6G, 7G... Dove G sta per generazione, nella tecnologia, come negli esseri umani, e il numero il livello della generazione. Gli Usa stanno combattendo una battaglia per bloccare le società cinesi, e in particolare Huawei, nella loro attività di installazione dei sistemi per il 5G, cioè la struttura di distribuzione di dati e voce più veloce e capace che finora sia stata resa operativa, quindi la quinta generazione è quella in fase di installazione. Ma nel mentre il premier Boris Johnson ubbidisce a Donald Trump e dà lo sfratto a Huawei, che pure era stata scelta dalle autorità britanniche per realizzare gli impianti 5G, la Cina ha già messo a punto il 6G, la sesta generazione di trasmissione dati e servizi, ed è sulla strada del 7G. Sembra una fake news, vero, ma è la realtà. Per il 6G il ministero cinese della Scienza e della tecnologia ha già istituito dal novembre scorso due gruppi di lavoro per le attività di ricerca e sviluppo sulle reti mobili di sesta generazione. Il primo gruppo, come riportano al Politecnico di Milano, unisce gli enti governativi con competenze nelle telecomunicazioni e si occupa di indirizzare la ricerca e sviluppo del 6G. Il secondo gruppo di lavoro è invece composto da 37 università, centri di ricerca aziendale che hanno il compito di dedicarsi alle specifiche tecniche del 6G e di offrire consulenza al governo di Pechino.
Se non bastasse, China Unicom, la più antica società di telecomunicazioni cinese nata dalla scissione delle poste, e Zte, che è la società parallela a Huawei, hanno annunciato un’alleanza sul 6G con l’obbiettivo di garantire il predominio della Cina dell’ambiente assai più avanzato del 5G. Non è difficile comprendere che la Cina, di fronte alla guerra dichiarata da Trump a Huawei per il 5G, aggira il problema andando ben oltre, appunto con il 6G.
Ma non basta, perché se sul 6G sta operando il duo Unicom e Zte più i due gruppi di lavoro già operativi, Huawei va ancora più avanti, cioè verso il 7G.
Il segreto di questo vantaggio enorme sulle varie case europee (Ericsson) e americane (Cisco, Microsoft) è un chip che può fare enne operazioni mentre quello più avanzato del mondo occidentale, Microsoft, ne può fare due. Ma non solo. Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale viaggia ad alta velocità, potendo disporre la Cina, come nessun Paese (l’India, che è seconda, ne ha 600 milioni), dei dati di oltre un miliardo di cittadini con smartphone, che producono dati di tutti i tipi con i quali avviene lo sviluppo dell’AI. E così la Cina sta mettendo a punto il progetto China Standards 2035 con cui si propone di definire quali debbano essere gli standard globali delle tecnologie mobili di nuova generazione. Sì da avere il dominio su aree strategiche di telecomunicazioni-intelligenza artificiale e il traffico dati controllando il processo di standard-setting.
Per tutte queste ragioni appare leggermente autolesionista la decisione di Telecom Italia di non far neppure partecipare Huawei al bando per il 5G. Sorprende che un manager del livello di Luigi Gubitosi abbia fatto, o subito, una tale scelta. La giustificazione è che il 5G di Huawei non garantisce la sicurezza dei dati e dei servizi connessi. È vero? O sono i servizi di sicurezza, collegati a quelli americani, che hanno influenzato la scelta?
Le domande sono ancor più calde alla luce dell’atteggiamento della Germania, che non ha fatto nessun passo indietro sulle strutture di Huawei per il 5G. Una scelta, se non cederà alle pressioni politiche degli Stati Uniti, protetta e giustificata dalla più seria ricerca che sia stata finora fatta sulla sicurezza del 5G di Huawei. Il controllo tecnico è stato effettuato dalla società indipendente tedesca Ernw sul codice sorgente per il gateway dell’infrastruttura del network di ultima generazione della società cinese. Secondo Ernw, il sistema Huawei soddisfa tutti gli standard di sicurezza.
Non solo tecnologia per la tecnologia, ma tecnologia per lo sviluppo socio-economico dei Paesi. Uno sviluppo sempre più connesso con l’applicazione e l’evoluzione del 5G. I Paesi che per ragioni politiche rifiutano Huawei, visto che non sembrano esisterne di tecniche in base agli analisti tedeschi, rischiano un gap profondo. Un arretramento che, se si somma al Covid-19, può far precipitare un Paese in una crisi lunga e profonda. Non è infatti in dubbio che il progresso del mondo e dei cittadini del mondo sia legato al digitale e ai sistemi di comunicazione 5G e poi 6 e 7G. Accumulare alcuni anni di ritardo può mettere fuori gioco chi non tiene il passo, usando ciò che di meglio il mercato offre. E soprattutto, in questo modo, il gap con la Cina si allarga sempre di più.
È perciò necessario che l’Italia faccia una riflessione profonda sul tema, cercando di essere schermata dalle scelte tedesche che al momento non paiono in dubbio.
Il ragionamento non riguarda solo l’Italia ma tutta l’Europa. Il bilanciamento non può che essere fra il livello della tecnologia e le alleanze con il mondo occidentale.
Per essere drastici gli Stati Uniti hanno sparato nel campo della sicurezza, alla quale si allacciano tutte le istituzioni del mondo atlantico, dalla Nato anche alla più piccola alleanza fra i Paesi che hanno sempre come riferimento gli Usa.
Ma questo bilanciamento è possibile?
Deve essere possibile perché in gioco non è soltanto una tecnologia, ma lo sviluppo dei prossimi 10-15 anni. Non è secondario che Johnson abbia sì dato lo sfratto a Huawei: ma lo sfatto vero ci sarà dal 2027. Una decisione che ha il sapore del compromesso: non può dire no agli Usa, ma ha mandato la palla avanti. Se all’analisi Ernw ne seguiranno altre convincenti e affidabili come potrà essere sostenuta la doverosa esigenza della sicurezza nazionale o dello schieramento atlantico? Anche i più ingenui capiscono che sui sistemi 5G, 6G e 7G si gioca il primato assoluto nel mondo, non solo tecnologico. E dopo oltre 80 anni di leadership mondiale, di guardiano del mondo, per gli Usa è duro anche solo pensare di diventare il numero due dietro la Cina.
Eppure, i dati economici proiettati a dieci anni, come emerge anche dal Rapporto annuale della Fondazione Italia Cina, presentato in anteprima mercoledì 15 su Class Cnbc, indicano che il pil mondiale sarà prodotto per il 1/3 dalla Cina, 1/3 dai vari Paesi del mondo atlantico, inclusi quindi gli Usa, e per il rimante terzo dal resto dei Paesi.
Per questo, secondo l’ambasciatore italiano a Pechino, Luca Ferrari, nell’intervento che ha fatto su Class Cnbc, l’Italia, sia pure nel rispetto della alleanze storiche, non può permettersi di prescindere dalla Cina. E da Nuova Delhi gli fa eco l’ambasciatore Vincenzo De Luca, per molti anni responsabile alla Farnesina della promozione del sistema-Paese: «In Asia l’India è la seconda forza tecnologica, l’hub scelto da molti grandi operatori digitali, anche per il fatto che sono attivi 600 milioni di smartphone. Per questo gli Usa sono sempre più presenti nel paese».
È l’India una chance per gli Usa nella tecnologia, ma nonostante il Paese sia da tempo produttore di tecnologia, chi perde il contatto con la Cina per puntare solo su Nuova Delhi non potrà evitare di accumulare un gap pesantissimo sullo sviluppo indotto dalla rivoluzione tecnologica.
È vero che non c’è paragone fra le alleanze storiche nel mondo atlantico e il Memorandum of understanding firmato dall’Italia con la Cina per la Nuova via della Seta. Ma quello, assieme all’amicizia fra il presidente Sergio Mattarella e il leader della Cina, Xi Jinping, rimane un punto di vantaggio dell’Italia rispetto a molti altri Paesi. Che il governo italiano sappia giocare bene la partita.
Per la sua evoluzione nei prossimi 15 anni l’Italia non potrà non rivendicare lo sviluppo dei rapporti con la Cina. A cominciare dal settore tecnologico. Quindi è auspicabile che Telecom, sia pure avendo escluso Huawei dalla gara per il 5G, voglia trovare relazioni con le aziende cinesi che dominano il mercato della tecnologia e si apprestano ad accelerare sui sistema 6G 7G che cambieranno il mondo.
Anche perché se si deve parlare di sicurezza dei dati, quali garanzie danno oggi gli Ott, da Google a Facebook, a Twitter, ad Amazon? Offrendo agli utenti pagine contrattuali complessissime, di fatto i maggiori operatori scoraggiano a leggerle e quindi ottengono piena libertà per l’uso dei dati personali di ciascuno e non solo dei cittadini ma anche delle aziende. Questo risultato è il frutto di due scelte consapevoli delle ultime quattro amministrazioni americane: 1) non porre nessun limite alla dimensione e alle quote di mercato degli Ott e alla loro ricchezza, di fatto dimenticandosi della legge antitrust, che dalla fine dell’800 aveva garantito la democrazia economica americana fino a essere il riferimento ideale di tutto il mondo democratico: come si fa a tollerare che Google abbia il 94% di quota di mercato del search quando il secondo, addirittura Microsoft, ha solo una quota del 4%?; 2) lasciare che il potere degli Ott sia addirittura condizionante dello stesso potere dell’amministrazione e quindi di chi dovrebbe garantire la democrazia, sia per l’influenza sugli elettori sia per la forza del denaro accumulato.
La riprova la si è avuta proprio negli ultimi giorni, quando è stato provato che Twitter, il social preferito dal presidente Donald Trump, ha un grande buco nella sicurezza fino alla possibilità con una banale truffa di violare gli account di Barack Obama, Jeff Bezos o Elon Musk. Non dovrebbe il governo americano, visto che Twitter, Facebook, Google sono società americane e quindi in primo luogo sottoposte alla legge americane, preoccuparsi della sicurezza tecnologica che esse offrono a chi se ne serve? In tempi in cui le fake news hanno sorpassato le notizie vere, non ci si può limitare a vedere soltanto la possibile insicurezza di aziende cinesi. Con il che, naturalmente, non si è qui certo a patrocinare la sicurezza o meno dei grandi operatori cinesi, perché è evidente che la guerra in corso sarà sempre più una guerra tecnologica. Nella quale vince chi riesce a realizzare i sistemi e le tecnologie più potenti e più utili. È palese che la Cina è davanti per i sistemi di trasmissione dati sempre più veloci e potenti. Siccome questi sistemi hanno e avranno sempre più un effetto sul potere delle nazioni che li posseggono ma anche un effetto decisivo sullo sviluppo economico, non si può essere manichei per ragioni di schieramento, specialmente se si è un Paese come l’Italia che dipende per oltre il 30% del suo pil dalle esportazioni e che ha bisogno urgente di investimenti internazionali sul proprio territorio.
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Il giudizio emesso giovedì dall’Antitrust sulle condizioni in cui l’ops lanciata da Intesa Sanpaolo su Ubi può procedere, segnala un aspetto condivisibile quando oltre a ribadire l’esigenza di garantire la pluralità con la cessione di almeno 500 sportelli (richiesta accettata da tempo da Intesa Sanpaolo) specifica che è decisivo verificare le zone in cui gli sportelli devono essere ceduti. Anche questa richiesta è stata accettata e riconferma il valore del territorio per l’attività bancaria, specialmente dopo il processo di concentrazione spinto dalle autorità di controllo europee. La possibilità per un individuo, una famiglia, un’azienda di avere nel suo territorio più alternative bancarie è fondamentale.
Un altro parere fondamentale espresso dall’Antitrust colpisce tuttavia al cuore Ubi. La banca ben guidata da Victor Massiah ha respinto, attraverso il parere del consiglio d’amministrazione, l’offerta di Intesa Sanpaolo, proponendo di essere, Ubi, banca aggregante per creare il terzo polo. Di fatto l’Antitrust certifica che Ubi non ha questa possibilità, con queste parole: «Non sono emerse evidenze né certe né univoche in merito alla reale possibilità di Ubi di costituire il riferimento per un terzo polo aggregante di medie realtà bancarie italiane quali a esempio Bper, Mps». Casomai il terzo polo potrà farlo Bper, acquistando i 500 sportelli che venderà Intesa Sanpaolo, che ha colto la sentenza dell’Antitrust per rilanciare, come molti si aspettavano: non solo azioni contro azioni, ma anche 0,57 euro cash per azione dell’ops. Si delinea così una situazione in cui il consiglio d’amministrazione di Ubi, se l’ops avrà successo, potrà sostenere di aver fatto, con la sua opposizione, guadagnare un valore non indifferente cash a chi apporterà le azioni a Intesa Sanpaolo. Carlo Messina ha così fatto avere, in caso di successo, l’onore delle armi a chi, come Massiah, ha militato a lungo e con successo nei vertici di Intesa Sanpaolo. E soprattutto avrà distribuito più di 650 milioni cash su un territorio particolarmente martoriato dal Covid, permettendo poi alle fondazioni socie di Ubi di incassare dividendi come mai negli ultimi anni.