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 2020  luglio 18 Sabato calendario

Intervista a John Niven

Non è uno scrittore politicamente corretto, lo scozzese John Niven, 52 anni, che si definisce ancora uno della working class nonostante abbia ormai raggiunto un bel successo e che anche il cinema lo cerchi per le sceneggiature. Nei suoi libri, prendiamo Maskio bianco etero (2015) e Uccidi i tuoi amici (2019), racconta spesso di una mascolinità tossica, misogina e razzista. «Ma il ruolo della letteratura non è quello di risolvere i problemi», mi dice dalla sua casa con giardino nel Buckinghamshire, dove ha trascorso con la moglie e i due figli la quarantena, «e non penso nemmeno che potrebbe farlo. Nabokov disse che la letteratura deve "rallegrare" il lettore, un obiettivo che puoi raggiungere anche con un protagonista misogino, se lo sai raccontare bene».
Nella sua nuova commedia nera, La lista degli stronzi, un po’ satira politica un po’ thriller con inseguimenti e sparatorie, racconta il folle road trip su e giù per gli Stati Uniti di Frank, un malato terminale di cancro che prima di morire vuole vendicarsi di cinque persone che, secondo lui, hanno rovinato la vita a lui e all’intero Paese, un giustiziere kamikaze pieno di difetti al quale, però, si vuole subito bene.
Come le è venuta l’idea di una "lista degli stronzi"?
«Sette anni fa un caro amico mi raccontò che, quando gli avevano detto che aveva un tumore, il suo primo pensiero era stato di andare a cercare quelle cinque o sei persone che nella vita lo avevano raggirato e di ucciderle. Ora, è strano che a uno a cui manca poco da vivere venga voglia di fare una carneficina: di solito la gente pensa a cose come fare il bagno coi delfini, cose da bucket list (la tipica lista delle cose che uno vorrebbe fare prima di morire, ndr). Da solo, però, quello spunto non sarebbe stato sufficiente per un libro, ma poi, osservando quello che è successo negli Stati Uniti negli ultimi anni, le due idee si sono fuse: un tizio che sta per morire e che se ne va in giro per l’America ad attuare una vendetta non solo per ragioni private, ma anche politiche».
Insomma, tutto il contrario di una "bucket list".
«La differenza principale è che in una ci scrivi quello che "vuoi" fare, nell’altra quello che "devi" fare per aggiustare una serie di cose».
Tiri fuori le sue liste.
«In realtà non ho una bucket list perché nella vita sono stato fortunato e sono riuscito a fare quello che desideravo. D’altra parte, non sono nemmeno uno vendicativo: ho degli amici che si portano dietro grandissimi rancori per anni, io invece preferisco lasciare perdere, la vita è troppo breve. Voglio sottolineare una cosa: con questo libro non intendevo fare l’apologia della violenza, né promuovere l’idea dell’assassinio di Trump, anche se credo che dalla sua morte, diciamo per infarto, il mondo trarrebbe grande giovamento. È un essere umano spregevole, che ogni singolo giorno infligge danni incalcolabili al mondo intero. Non posso credere che Boris Johnson si sia preso il Covid e sia quasi morto, e a lui non sia capitato niente».
Perché ha scelto di ambientare questa storia in America?
«Ragioni tecniche: per Frank volevo un viaggio lungo, e il Regno Unito in fondo non è un Paese così grande. Volevo che restasse in giro a lungo, attraversasse molti stati, avesse tutto il tempo per riflettere su quello che stava facendo».
È un "road trip" che ha fatto di persona?
«No, anche se sono stato in tutti i luoghi nominati. Però ho fatto molte ricerche, e d’altra parte penso che oggi per capire cosa sta succedendo in certe parti dell’America basti guardare un paio di ore di Fox News».
Si è ispirato a qualcuno in particolare per la figura di Frank?
«Non proprio. Però credo che Frank sia una vecchia versione di me, un uomo che ha fatto degli errori, sia personali che politici, e che cerca di porvi rimedio».
Lei è riuscito a immaginare, o forse prevedere, molte cose del futuro prossimo, tranne una: il Coronavirus. Che impatto avrebbe avuto sui piani di Frank?
«Beh, in effetti per lui sarebbe stato un bel problema! (ride) Il mio libro è uscito esattamente la settimana in cui è iniziato il lockdown, perciò tutto il tour di presentazioni è stato cancellato. Ma sono stato fortunato, ho trascorso una buona quarantena anche perché non mi sono poi molto distaccato dalla mia normale routine, fatta di lavoro e di passeggiate. E ho anche potuto stare molto più tempo con i miei figli e la mia compagna».
In uno dei suoi romanzi più popolari in Italia, "A volte ritorno" (2012), immaginava il ritorno sulla Terra di Gesù incarnato in una popstar americana. Se dovesse ritornare oggi, chi sarebbe?
«Un brillante ricercatore che trova il vaccino per il virus».
Oggi c’è chi dice che siamo in una dittatura del politically correct, lei cosa ne pensa?
«Se fosse davvero così avremmo un mondo migliore: niente razzismo, niente sessismo, niente transomofobia. Ma purtroppo proibire certe espressioni linguistiche non impedirebbe a questi atteggiamenti di tornare sotto altre forme. Io sono molto meno sessista e razzista di quanto lo erano i miei genitori. E i miei figli lo sono meno di me, e questo mi fa pensare che in un paio di generazioni questo potrebbe essere la norma. Io non userei mai certe espressioni in una conversazione, ma non si può proibire a un personaggio di un libro o di un film di pronunciarle, sarebbe un limite all’espressione artistica. Di recente la scrittrice J.K. Rowling è stata insultata per avere detto che le donne trans non sono vere donne. Io dico questo: se una persona, guardandosi intorno nel mondo, trova che il suo nemico sia J.K. Rowling, allora deve davvero interrogarsi su chi siano i suoi nemici».
Ho letto un suo articolo di qualche anno fa sul "Guardian" in cui raccontava la storia di suo fratello Gary che si è ucciso. Poco dopo il decesso in ospedale, lei lasciò sua madre al capezzale e andò a chiudersi in bagno. Lì si mise scrivere su un taccuino tutto quello che era appena successo. Nell’articolo dice: «Essere uno scrittore è questo».
«Ciò che distingue uno scrittore è che una parte di lui non è mai interamente dentro il momento, ma è come un osservatore esterno che pensa a come potere "usare" quel momento. Può sembrare cinico, ma è quella cosa che Graham Greene chiama "la scheggia di ghiaccio nel cuore". C’è anche un’altra cosa: che i libri sono ciò che ci sopravvivranno. Mentre mio fratello moriva, c’era una parte di me che mi diceva che, un giorno, avrei voluto sapere come erano andate esattamente le cose. Sa, lei è la prima a cui lo dico, ma proprio adesso sto scrivendo il mio primo libro di non fiction ed è proprio un memoir su me e mio fratello, la nostra vita insieme, la storia di come sono diventato scrittore. Siamo stati tirati su allo stesso modo dalla stessa famiglia, eppure io sono andato all’università e lui in prigione perché spacciava droga. È una storia comune a molte famiglie, avere figli che crescono in direzioni così diverse. Ho iniziato ad aprile e in certi momenti è davvero molto doloroso».
Perché su Twitter si fa chiamare come il personaggio della serie "Seinfield", Estelle Costanza?
«Qualche anno fa, dopo una pesante lite con un membro della Nra, l’organizzazione dei detentori di armi da fuoco degli Stati Uniti, avevo ricevuto numerose minacce di morte. Così Twitter ha deciso di sospendere il mio account. E io ci sono rientrato con quel nome lì».