La Stampa, 18 luglio 2020
Quella volta che Bukowski viaggiò in Europa
«Ciò che interessa la maggior parte delle persone mi lascia completamente indifferente. Nella lista sono incluse cose come: balli di società, andare sulle montagne russe, andare allo zoo, picnic, film, planetari, guardare la tv, partite di baseball, andare a funerali, matrimoni, feste, partite di basket, gare automobilistiche, reading di poesia, musei, rally, dimostrazioni, proteste, spettacoli per bambini, spettacoli per adulti... non mi interessano le spiagge, nuotare, sciare, Natale, Capodanno, il 4 luglio, la musica rock, la storia mondiale, le spedizioni spaziali, i cani da compagnia, il calcio, le cattedrali e le grandi opere d’arte». Così Charles «Hank» Bukowski in Shakespeare non l’ha mai fatto, che Feltrinelli ripropone in libreria nell’edizione illustrata dalle fotografie di Michael Montfort per il centenario dello scrittore americano, nato ad Andernach in Germania il 16 agosto 1920.
Quando nel 1978 Charles Bukowski venne in Europa per un tour promozionale e per far visita allo zio Heinrich ormai novantenne e al suo traduttore Carl Weissner (che tra gli altri aveva già tradotto anche William Burroughs, Bob Dylan e Allen Ginsberg), fece alcune tappe accompagnato dalla moglie e musa Linda Lee in quello che doveva essere il suo unico viaggio nel Vecchio Continente. Ad Amburgo, contestato dalle femministe infuriate per la recente pubblicazione del romanzo Donne, si esibì in un reading che vide assieparsi 1200 persone in una sala da 800. A Parigi partecipò come ospite a Apostrophes, la celebre trasmissione televisiva di Bernard Pivot. Quella puntata, visibile ancora oggi su YouTube, è passata alla storia proprio grazie alla sua performance: Bukowski si presentò ubriaco, insultò Pivot e lasciò lo studio nel bel mezzo dell’intervista.
Le fotografie di Montfort ci restituiscono uno scrittore lontano dall’immagine stereotipata cucitagli addosso nel corso della sua turbolenta carriera. Certo, non manca lo scatto in cui l’autore di A Sud di nessun Nord si aggira con un cestello carico di bottiglie in un negozio di liquori. E però lo scrittore accusato di misoginia e sessismo dalle femministe abbraccia teneramente Linda Lee nello scompartimento del treno su cui attraversano la Germania e cammina avvolto con lei in una coperta a quadri nel parco del castello di Schwetzingen. In una fotografia, Bukowski si sporge dalla finestra di una moschea. E basta leggere le righe dedicate a questa visita («Poi abbiamo trovato la moschea. Puzzava di tacchino mezzo cotto. "Togliete le scarpe!" diceva il cartello. Le abbiamo tolte e le abbiamo messe sulla rastrelliera. La vecchia lì dentro, la custode della scarpiera-alveare, indossava le scarpe e aveva caviglie magre e sottili, faccia ebete e culo floscio») per rendersi conto degli attacchi che subirebbe Bukowski oggi, al tempo della «cancel culture».
In Quel che m’importa è grattarmi sotto le ascelle, il volume-intervista di Fernanda Pivano dedicato allo scrittore, Bukowski confessò che a lui non importava l’opinione delle femministe: «Non vado a letto con le femministe... credo che esista un’opinione sleale su di me, ma a me non importa perché mi aiuta a vendere libri. È un’idea esagerata di ciò che sono. Mi fa risultare ancora più sensazionale di quello che sono, più bastardo di quello che sono. Il che tutto insieme aiuta a vendere libri perché quelli che tendono a detestarti sono anche buoni lettori. Sono molto curiosi quando detestano. Così questa falsa immagine aiuta le vendite».
In un bar di Ladenburg, Bukowski è immortalato con gli occhi bassi, una sigaretta in una mano e un calice di vino nell’altra. Alle sue spalle gli avventori sono tutti uomini soli: «Quasi li sentivo rimuginare sui giorni e sugli anni della loro vita». È, questa, una foto che a suo modo ricorda Nighthawks, il celebre quadro di Edward Hopper: perché sì, Bukowski scriveva di sesso senza alcun riguardo per le donne e per i gay, e raccontava le rivolte di Watts senza alcun riguardo per i neri, e metteva in scena nei suoi racconti stupratori e pedofili, guardoni e pervertiti. Ma in realtà le sue pagine sono intrise di dolore e paura, solitudine e compassione per gli ultimi, gli emarginati, i reietti di quella grande truffa che resta per i più il Sogno Americano. Di cui pochi hanno saputo farsi beffe come lui in Post Office, il romanzo d’esordio, vero manifesto anticapitalista scritto con una vena satirica davvero unica.
Quanto ci hai fatto ridere (amaro), caro vecchio Hank, tu che eri ossessionato dalla morte come Hemingway. Oggi come oggi saresti davvero inattuale, e per questo ti amiamo ancora di più.