La Stampa, 18 luglio 2020
Pechino ordina quando rimanere incinta
La maestra Pan Jiayi ha saltato la fila, ed è stata licenziata. «Ha violato il regolamento», sostiene l’asilo per cui lavorava: è rimasta incinta nonostante la scuola avesse deciso di dare priorità a sei colleghe che ancora non avevano avuto neanche un figlio. Può il datore di lavoro decidere al posto delle donne che impiega qual è il momento giusto per avere figli? No, e infatti il tribunale le ha dato ragione. Ma dal 2016, ovvero da quando la Repubblica popolare ha sostituito la cosiddetta «politica del figlio unico» con quella dei «due figli», questa pratica è sempre più diffusa. E non sempre chi la subisce ha gli strumenti per portarla di fronte a un giudice, anzi. A più riprese il Paese si è scandalizzato manifestando online il proprio dissenso e raccogliendo testimonianze sotto l’hashtag #InCodaPerUnFiglio.
Secondo la tabella nascite della sua scuola, Mi Tang avrebbe potuto partorire solo nella seconda metà del 2021. Appena si è accorta di essere rimasta incinta, è andata all’ufficio personale convinta di poter trovare una soluzione di comodo. L’hanno messa di fronte a due possibilità: poteva pagare una multa, o interrompere la gravidanza e aspettare il suo turno. E se l’anno prossimo non fosse stata più fertile? Nel 2016 una scuola della regione dello Henan, Cina centrale, ha deciso che 15 insegnanti potevano rimanere incinte nella prima metà dell’anno, e 16 nella seconda. Chi non riusciva nella finestra di tempo stabilita scalava in fondo alla lista: avrebbe dovuto attendere altri quattro anni prima di poterci riprovare. Lo stesso anno, un ospedale della metropoli meridionale Dongguan, aveva stilato una graduatoria simile per le infermiere lì impiegate. Chi non l’avesse rispettata rinunciava a bonus e promozioni per tre anni.
Liu Yiran, manager 34enne di un’azienda di telecomunicazioni con sede a Pechino, non aveva previsto la sua gravidanza. Quando ha deciso di tenere il figlio, l’azienda le ha fatto le congratulazioni e ha offerto la sua posizione a un collega. Un mese più tardi Liu ha rassegnato le dimissioni: nessuno degli incarichi che le erano stati proposti rispettava le sue qualifiche. Un’azienda di Shanghai è stata denunciata perché pretendeva che le sue impiegate chiedessero all’ufficio del personale il permesso per rimanere incinte, mentre molto spesso il posizionamento sulla tabella nascite viene legato alla produttività delle singole lavoratrici e messo in contrapposizione con la legittima aspettativa di far carriera. Una nota banca della megalopoli di Shijiazhuang, Cina settentrionale, chiede addirittura alle sue impiegate di scegliere tra maternità e lavoro senza troppi giri di parole.
Dopo che centinaia di milioni di cinesi sono state costrette a confrontarsi con aborti forzati, sterilizzazioni di Stato, femminicidi in culla e figli illegittimi a causa della cosiddetta legge sul figlio unico, oggi la Repubblica popolare cerca di porre rimedio a quella che in molti definiscono «una bomba demografica ad orologeria». Ma nonostante Pechino lamenti una sempre più bassa natalità e un invecchiamento veloce della popolazione, sono alcuni anni che la stampa cinese riporta notizie di lavoratrici che devono chiedere il permesso per procreare e di aziende che aggiungono ai contratti delle neo-assunte un accordo informale (e illegale) sulle tempistiche con cui intendono metter su famiglia.
E sì che trent’anni fa, quando è iniziata l’epoca delle riforme e la Cina ha cominciato ad aprirsi al mercato, lavoravano tre donne su quattro e il loro stipendio era l’80 per cento di quello dei colleghi. Ma alla fine degli anni Ottanta sono state le prime a pagare il prezzo delle dismissioni di fabbriche e aziende di Stato. E la perdita di diritti è andata via via accelerando. Oggi lavora solo il 60 per cento delle donne a fronte di uno stipendio che è all’incirca la metà di quello percepito dai maschi. Inoltre quasi il 60 per cento delle cinesi deve dare conto del proprio stato famigliare durante i colloqui di lavoro e oltre il 10 per cento è stato licenziato in concomitanza di una gravidanza o della nascita di un figlio. Come se non bastasse il numero di offerte di lavoro destinate esclusivamente a candidati maschi è in continua crescita. Solo nella pubblica amministrazione sono l’11 per cento, con picchi del cento per cento in alcuni settori. Sono lontani i tempi in cui la propaganda maoista aboliva «pratiche feudali» come matrimoni combinati e concubinato e celebrava «l’altra metà del cielo» per il suo contributo all’economia nazionale.
Tradendo l’ambizione comunista a una società libera dal patriarcato, il presidente Xi Jinping ha richiamato le donne al «ruolo unico» che ricoprono all’interno della famiglia, ovvero «il prendersi cura di giovani e anziani e l’educare i bambini». Come a dire che il posto delle donne è tra le mura domestiche. Non è un caso che negli ultimi dieci anni la Repubblica popolare è passata dal 63esimo al 106esimo posto dell’indice sul divario di genere del Word Economic Forum: il Partito è tornato a considerare l’utero come uno strumento per plasmare la società del futuro. Lo Stato ha bisogno di nuovi nati, ma non paga le 14 settimane di maternità e finge di non capire che un’azienda le considera un costo immotivato. Allo stesso tempo i tribunali sono restii ad aprire indagini per discriminazioni di genere, demansionamento, mobbing e dimissioni in bianco per paura di incidere negativamente sulla produttività del Paese. Non stupisce che le single siano in crescita nonostante la propaganda si ostini a chiamarle con disprezzo «donne avanzate», né che Xi Jinping tema le femministe quanto teme i «dissidenti»: la lotta per i diritti delle donne potrebbe essere il tallone di Achille di uno Stato patriarcale e autoritario.